Interventi: Gianpaolo Carbonetto Gruppo Friuli Venezia Giulia

martedì 24 gennaio 2023

Ex fissa la storia di un’ingiustizia e della mia ribellione


Questo mio intervento è mosso sicuramente da un interesse personale, ma anche, se non soprattutto, dal desiderio di ribellarsi a uno dei tanti atti di ingiustizia che si verificano quotidianamente nel nostro Paese e che vengono derubricati a fastidi ai quali semplici cittadini o gruppi di consistenza variabile devono assoggettarsi per “non disturbare il manovratore”, sia esso il governo in carica, qualche organizzazione, o qualche potente. Ovviamente ci sono sempre delle pseudo-giustificazioni, tra cui spiccano quelle riferite a un eventuale pseudo-bene maggiore, per sostenere questi soprusi, ma resta il fatto che gli eventuali “beni maggiori” sono tutti da dimostrare e che comunque i concetti di giustizia, di legge, di contratto, vengono sfregiati nella generale indifferenza con conseguenze terribili anche nella considerazione sociale delle regole che dovrebbero governare una qualsiasi comunità.

Scusate un altro breve preambolo, ma credo di doverlo fare per assicurarvi del fatto che parlo con cognizione di causa. Sono Gianpaolo Carbonetto, giornalista professionista dal 1974 e ho cominciato a fare sindacato nel 1976. Ho partecipato al mio primo congresso a Pescara nel 1978 e poco dopo sono stato eletto vicepresidente dell’Associazione della Stampa del Friuli Venezia Giulia, carica che ho mantenuto fino ai primi anni del 2000. In questo periodo ho partecipato costantemente alle Commissioni contratto e, quindi, ho assistito anche al concepimento e alla nascita della cosiddetta “Ex fissa” che, ovviamente, inizialmente era chiamata semplicemente “Fissa”.

Per capirne la genesi, occorre tornare con la mente ai primi anni 80 quando l’inflazione era stabilmente in doppia cifra e, per un periodo, aveva anche superato abbondantemente il 20%, facendo convergere buona parte degli sforzi contrattuali sulla parte economica, pur non trascurando quella normativa.

Nel 1985 – segretario Sergio Borsi – davanti alla nostra richiesta di sostanziosi aumenti di stipendio, gli editori, pur dopo opposizioni strumentali di cui vi faccio grazia, hanno detto più o meno così: «Non possiamo darvi torto, ma siamo anche noi in un momento di crisi. Quindi la nostra proposta è quella di darvi una parte dell’aumento direttamente in busta paga e di dirottarne un’altra parte in un fondo che sarà da noi alimentato e che formerà una specie di secondo trattamento di fine rapporto». Vi risparmio molti particolari, ma il succo del discorso era questo. Cioè, si trattava di denari nostri lasciati temporaneamente in custodia e in gestione a un organismo che doveva essere finanziato dagli editori con contributi per ogni giornalista in attività e che avrebbe usato l’INPGI come “ufficiale pagatore”, o “gestore contabile”. Resta da sottolineare che la RAI, invece, ha scelto di fare tutto in casa e che, quindi, i colleghi dipendenti di quella azienda hanno continuato a ricevere la Ex fissa anche dopo la crisi che ha fatto stringere i cordoni della borsa per gli altri giornalisti aventi diritto.

Il meccanismo è andato avanti per anni senza grossi problemi. Poi è cominciata una nuova e più profonda crisi dell’editoria che ha portato a un incredibile aumento dei prepensionamenti forzati, fenomeno che contemporaneamente ha fatto aumentare i colleghi pensionati e diminuire quelli in attività dal numero dei quali dipendeva l’afflusso dei contributi al fondo della Fissa.

Per capire meglio quello che è accaduto dopo, faccio diretto riferimento alla mia situazione. Quando sono andato in pensione nel 2011, dopo 37 anni di lavoro nella medesima azienda, ho ricevuto regolarmente il trattamento di fine rapporto, mentre mi è stato detto che per incassare l’Ex fissa (che per me era quantificata in oltre 140 mila euro) avrei dovuto attendere un annetto. Al termine dell’anno mi sono informato del perché non avevo più saputo nulla e mi è stato comunicato che il tempo d’attesa era più o meno raddoppiato e che, per favore, portassi pazienza anche perché intanto gli interessi continuavano a correre e a far aumentare il gruzzolo. Poi, prima della scadenza dei due anni, mi è arrivata una raccomandata con le scuse per la situazione e con, in chiaro, un piano di ammortamento che prevedeva il pagamento di circa 144 mila euro lordi in 12 rate da circa 12 mila euro l’una. La prima di queste è stata pagata e poi più nulla, se non quel versamento di tremila euro lordi a Natale, uguale per tutti, a prescindere dalla quantità di credito esigibile e anche dalla durata dell’attesa.

Nel frattempo, senza che nessuno di noi venisse informato, abbiamo saputo che FIEG e FNSI avevano deciso di calare a zero gli interessi sulla cifra che, almeno nominalmente, era depositata nelle loro casse e abbiamo assistito alla proposta di accettare di ridurre del 50 o del 30 per cento le proprie aspettative, pur di ricevere il saldo ridotto con sollecitudine. Il risultato è stato che la maggior parte di coloro che hanno accettato sono ancora in attesa della liquidazione.

Ora a me interessa soprattutto cancellare l’ipocrisia di voler far passare la cancellazione dei nostri crediti nei confronti degli editori come un atto di solidarietà nei confronti dei colleghi perché non di atto di solidarietà si tratta, ma di appropriazione indebita, truffa, o semplicemente furto. Quei soldi (tra l’altro nessuno mi risponde quando chiedo quanti in realtà dovrebbero ancora essere) sono miei dall’agosto del 2011 e i presunti atti di solidarietà, o sono personali, o sono imposti per legge, come le quote di solidarietà che abbiamo pagato per anni e che ora vogliono farci pagare nuovamente, oppure non sono atti di solidarietà.

Non si capisce perché i miei debiti – verso chiunque e non soltanto verso lo Stato – debbano essere giustamente pagati, mentre questi degli editori nei nostri confronti possano godere dell’esenzione dall’obbligo.

Non esiste, per esempio, la possibilità che se qualcuno, presumendo di ricevere sicuramente il proprio denaro, avesse fatto dei debiti, oggi potrebbe non pagarli, proprio come fanno gli editori.

Perché non vale nemmeno la scusa che la cassa dell’Ex fissa è vuota. L’accordo contrattuale del 1985 è stato firmato dagli editori e non dai titolari di un ente che ovviamente doveva ancora nascere; gli editori, almeno come FIEG, esistono ancora e i loro impegni non sono certamente evaporati lasciandoli liberi di poter dire «Io non c’entro», anche se sono proprio loro, con l’enorme quantità di prepensionamenti, la causa del prosciugamento della cassa che, invece, avrebbero dovuto gestire con l’oculatezza che si deve doverosamente ai soldi altrui che si è chiamati a gestire e a proteggere. Proprio come normalmente accade con il denaro dei TFR.

Incomprensibile è il fatto che la FNSI, almeno in una sua parte, non prenda posizione contro un furto palese, anche perché nessun vantaggio deriverebbe da questa cancellazione dei crediti altrui agli editori per i colleghi ancora in attività.

Forse dovremmo cominciare a parlarne non soltanto tra di noi, o con qualche referente politico, ma in pubblico perché un furto resta sempre un furto, a prescindere dalla simpatia o antipatia pubblica della categoria, o della persona che lo subisce.