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The Post


Un collega mi aveva avvertito: se andrai a vedere “The Post” non potrai evitare un po’ di nostalgia. Aveva perfettamente ragione. Ed è stato il principale motivo che mi ha spinto, in un pomeriggio piovoso, a passare un paio d’ore in una delle mie sale preferite. La trama la conoscevo, avevo letto le recensioni del film, della bravura di Meryl Streep, della sua candidatura all’Oscar, della sua capacità e forza nell’interpretare la parte di una donna, Katharine (Kay) Graham, che aveva ereditato dal padre la proprietà di un importante quotidiano della Capitale, il Washington Post. Il suo era pur sempre un giornale locale, di fronte a colossi come il New York Times. Di qui i suoi sforzi per rimanere a galla e alla guida della società, dove prevalevano le opinioni dei soci maschi, (siamo nel 1971), della sua intenzione di quotare in borsa il giornale per superare le possibili difficoltà economiche. 

Una donna forte, indubbiamente, ma la sua forza viene messa alla prova quando il giornale inciampa nei così detti “Pentagons Papers” documenti ultrasegreti del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, redatti dall’analista militare Daniel Ellsberg per conto del segretario di Stato alla Difesa, Robert McNamara e del presidente Lyndon Johnson. In essi si afferma, senza ombra di dubbio, che quella guerra nel Viet Nam l’America non può vincerla. Un’affermazione che l’amministrazione USA non può accettare. McNamara, grande amico della Graham, mente alla stampa: tutto va bene. Ma Ellsberg fotocopia la documentazione “top secret” e l’invia al New York Times, che quattro mesi dopo ne inizia la pubblicazione. 

Nasce nel Paese un’ondata di proteste e un grosso scandalo. Il quotidiano newyorkese riceve l’ingiunzione di sospendere la pubblicazione, fissando tuttavia un tempo limitato, pena l’accusa di oltraggio alla Corte. Ben Bagdikian redattore del Post, capisce che Ellsberg è la fonte della fuga della documentazione, lo rintraccia e ottiene lo stesso materiale dato al Times. Otto ore è il tempo rimasto al quotidiano della Capitale, sulla base dell’ingiunzione al foglio newyorkese, prima che il divieto scatti. E’ possibile ancora pubblicare i documenti. I legali del Post sconsigliano: si cadrebbe nelle stessa accusa di “contempt of the Court” che nel diritto anglosassone è un reato gravissimo. Il “board” del giornale è contrario alla pubblicazione, la Graham, spinta dal direttore del quotidiano, Ben Bradley (un ottimo Tom Hanks) è favorevole.  Nella notte del 17 giugno la donna decide: si pubblichi. Post e New York Times sono convocati in tribunale. Il giudizio è ambiguo e quindi rinviato alla Corte Suprema che con un verdetto 6 a 3 assolve entrambe le testate con la motivazione che la stampa non è destinata a servire coloro che governano, bensì coloro che sono governati. “E’ la stampa bellezza e tu non puoi farci niente”, disse qualcuno in un altro film di tanti anni fa. 

La pellicola di Spielberg ricalca l’assunto. Del resto questa vicenda di “The Post” è l’antefatto della storia che vide ancora il quotidiano al centro e che abbiamo seguito nel film del ’76 “Tutti gli uomini del Presidente”, con il seguito delle dimissioni di Nixon. Il film di Spielberg si chiude infatti con l’immagine della guardia notturna che entra nelle stanze del Watergate, sede del Partito democratico, e trova le porte forzate. Il resto è storia. 

Allora perché nostalgia? Perché il “Post” del film, che io ho visitato a suo tempo, è il quotidiano di una volta, dei “bei vecchi tempi”, delle macchine da scrivere, delle rotative, dei tipografi, dei linotipisti, del “piombo”.  Tutta roba scomparsa, ma con la quale molti di noi sono cresciuti e si sono confrontati. E anche l’altra chiave del film, la lotta di una donna per fare prevalere, con tutti i dubbi possibili, le sue ragioni contro un mondo maschilista, dove al massimo potevi fare la dattilografa o l’amante del capo. Non fu forse il direttore di un autorevole quotidiano italiano a dire, tanti ma tanti anni fa, “qui una donna entra solo se è la mia amante”. Cari, bei vecchi tempi. E’ un bene che siano passati. Ed è bene ricordare che “la stampa non è destinata a servire coloro che governano, bensì coloro che sono governati”. Vale per tutta la stampa, in tutte le sue forme odierne. I primi a non doversene dimenticare mai siamo noi, i giornalisti. 

Neri Paoloni