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Lion


Pensavo di parlarvi di La La Land, il film che ha ottenuto ben sei oscar, tra cui miglior regia e migliore attrice protagonista. Ma sarà per colpa della mia età, devo dire che il film non mi ha soddisfatto. Perché l’avevo già visto. Prima, tanti anni prima. Dove cantavano e ballavano Gene Kelly, Leslie Caron e Cyd Charisse, Fred Astaire e Ginger Rogers. Film che si chiamavano “Un Americano a Parigi” o “Cantando sotto la pioggia”. Altri tempi.
La La Land è piacevole, gli attori sono bravi, la musica è orecchiabile, ma è tutto già visto, compresa la scena iniziale, l’ingorgo autostradale e tutti che ballano e cantano: già in “Nashvillle”. Comunque, due ore piacevoli. Poi mi è capitato, nel cinema sotto casa, un film che aveva avuto anche un paio di “nomination” ma che non aveva conquistato nessuna statuetta. E’ un piccolo film, con un grande piccolo attore. Il film si chiama Lion.
E’ la storia vera di un ragazzino indiano, Saroo, di quattro anni, che, nel 1986, vaga per le strade con il fratello maggiore Guddu per rimediare qualcosa da mangiare o rubare carbone da un treno per la sua famiglia molto povera. La madre raccoglie pietre non so per quale ragione, assieme alle altre donne del villaggio, nel nord ovest dell’India, nel distretto di Khandwa. Saroo e Gundu, una notte, vanno vicino alla ferrovia, nella stazione di un paese vicino, con l’intento di trasportare balle di fieno. Saroo si stanca presto e Guddu lo lascia a dormire su una panchina. Quando Saroo si sveglia non vede il fratello da nessuna parte. Pensa che sia su un treno, fermo e con le porte aperte: sale a sua volta. Il treno parte, intrappolandolo all’interno.
Il convoglio non fa soste e porta il piccolo Saroo lontano, a 1600 chilometri da casa. Quando finalmente il treno si ferma e le porta si aprono, Saroo è a Calcutta, una delle più caotiche metropoli del sub continente indiano. Qui non parlano neppure la sua lingua, l’hindi, qui si parla bengali e nessuno capisce cosa chiede, cosa cerca questo ragazzino, vestito con un paio di calzoncini, una camicetta e ai piedi un paio di sandali. Ci sono altri bambini, soli, per strada. Tanti bambini. In un sottopassaggio ce ne sono una decina sdraiati su cartoni. Un bambino più grande si muove a compassione e offre anche a Saroo un cartone su cui dormire. Ma i bambini in India – e non solo –sono merce. Da vendere e comprare.
Saroo finisce nelle mani di una losca coppia che capisce l’hindi. Ma sia la donna sia l’uomo con cui si accompagna hanno un’aria equivoca. Saroo scappa. Finalmente un impiegato che parla la sua lingua lo accompagna ad un commissariato perché attraverso la pubblicazione della sua foto sui giornali qualcuno possa riconoscerlo. Ciò che non avviene. Non resta che la via di un orfanotrofio. Dove il trattamento delle centinaia di ospiti è assai vicino a quello di un lager. Finalmente un’assistente sociale, incaricata di cercare bambini da dare in adozione, nota Saroo. I genitori adottivi saranno una coppia di australiani che vivono a Hobart, in Tasmania.  Lo cresceranno insegnandoli tutto. A partire dal nome inglese del cucchiaio, spoon, che il piccolo si porta dietro da tanto, tanto tempo.
A 25 anni Saroo è uno studente universitario a Melbourne, con numerosi amici e affetti, anche indiani. Una sera a cena a casa di alcuni di loro rivede, tra i piatti preparati, dei dolci fritti che gli ricordano il suo paese natale. Saroo, su suggerimento scherzoso di un amico, comincia una disperata ricerca del paese natale su Google Earth, basandosi sui pochi ricordi d’infanzia. Una ricerca che lo porta ad isolarsi dalla famiglia e dalla fidanzata. Alla fine i suoi sforzi hanno successo e Saroo, oggi Saroo Brierly, parte alla volta del suo paese, della sua radici, della sua madre naturale.
La trova, si ricongiunge con lei, lo raggiungono i genitori adottivi. Gundu è morto. Sotto un treno. Cercava il fratello. Finale con i veri protagonisti della storia che compaiono in luogo degli attori. Non è un mélo, non è un film da lacrima. E solo una bellissima storia, recitata con maestria dal piccolo Sunny Pawar, che ti incolla allo schermo, e poi da un bravissimo Dev Patel, Saroo da grande, dai genitori adottivi David Wenham e una convincete Nicole Kidman. Regista Garth Davis, soggetto dello stesso Saroo Brierly. Ha avuto molte nomination e nessun Oscar. Dimenticavo, Saroo vuol dire leone, Lion, appunto.

Neri Paoloni