cinema
L’uomo che vide l’infinito
Un film può aiutare a capire per quale ragione giovedì 23 giugno il 51,9% degli elettori britannici ha votato “leave”, ossia ha votato a favore dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Al di là delle giustificazioni di coloro che hanno avversato la permanenza del loro Paese in una unione ritenuta colpevole di imporre regole sgradite e favorire l’invasione di lavoratori stranieri, forse la ragione principale va ricercata nel carattere di quel popolo così come dimostrerebbe il diverso atteggiamento delle generazioni più giovani, le generazioni Erasmus, da quelle più anziane e Londra dal resto dell’Inghilterra. Il film in questione è “L’uomo che vide l’infinito”.
Protagonisti Dev Patel (attore inglese, di origine tamil) e Jeremy Irons che impersonano, rispettivamente, un giovane matematico indiano e la sua guida, il professore Godfrey Harold Hardy, dell’Università di Cambridge. Racconta la storia di un povero ragazzo di Madras, autodidatta e matematico dilettante che, agli inizi del 1914, riesce a fare conoscere la sue scoperte ai ricercatori della prestigiosa università di Cambridge fino ad ottenerne l’ammissione e, dopo alterne vicende, l’ingresso al Trinity College. Il film ricalca, con qualche licenza cinematografica (vedi il rapporto con la madre e la moglie bambina), la vicenda di Sirinivasa Ramaunjan e del suo “scopritore” e mentore, G.H. Hardy, l’unico a riconoscere lo straordinario talento di questo ragazzo indiano, al punto di chiamarlo in Inghilterra e di seguirlo nella carriera fino al successo accademico,
Il racconto si dipana in maniera lineare, dai primi tentativi di Ramaunjan di mettersi in contatto con i matematici inglesi per far conoscere i suoi studi sulla teoria analitica dei numeri fino all’invito dell’unico docente della prestigiosa università britannica che seppe apprezzare l’opera del giovane tamil di trasferirsi in Inghilterra e ai problemi d’inserimento di questo ragazzo indiano nella classista società accademica britannica dell’epoca. Da questo momento il racconto si sviluppa in due direzioni. Da una parte le difficoltà di un “coloniale”, un suddito dell’Impero Britannico, a farsi accettare non solo dagli accademici dell’Università di Cambridge, ma dagli stessi compagni di corso, dal suo isolamento anche alimentare, lui vegetariano, culminato in un pestaggio da parte di un gruppo di soldati britannici.
Dall’altra puntando sulla figura del suo maestro che, per amore della scienza e affascinato dalle idee e dalla personalità del giovane tamil, riesce a fare apprezzare a tutto il corpo accademico l’importanza del suo lavoro, facendolo accettare come “fellow” dell’Università e del Royal College, forzando un Paese colonizzatore ed una società razzista ad accoglierlo come un loro pari.
Hardy è un accademico non conformista, non a caso molto amico di Bertrand Russel, personaggio eccentrico nell’Inghilterra post-vittoriana. Nel nome della scienza e dell’amicizia assieme ad un altro matematico, Llittlewood, costruirà un rapporto egualitario con il giovane indiano. Per Ramanujan sarà in realtà molto difficile farsi accettare da una società che considera un suddito “coloniale” un diverso, uno “straccione straniero” sul quale scaricare le tensioni generate dalla guerra. Questo aspetto della storia viene evidenziato dalla regia di Mattew Brown, filtrato attraverso gli sguardi e gli atteggiamenti di distacco e di disprezzo degli inglesi verso chi non è e non sarà mai “british”. E’ un atteggiamento che, a distanza di un secolo, permane in una larga parte della popolazione britannica, nascosto appena da un velo di ipocrisia. E’ la mancata accettazione di ciò che non è al cento per cento britannico a provocare il persistente rifiuto di una gran parte degli inglesi a considerarsi “europei”, che si è tramutato nel traumatico prevalere del “leave” nell’incauto referendum voluto da Cameron. Sono certamente i più anziani, i bianchi e i più disagiati della classe operaia della provincia inglese e gallese a sentire quel distacco dagli “europei” che li ha sempre portati a respingere le regole di convivenza fissate da Bruxelles, compreso il dover rinunciare alle amate pinte e alle once, ai piedi e ai pollici.
A ben vedere, è quell’Inghilterra che si sente ancora in guerra con Napoleone e che preferisce credere ad un Commonwealth ormai svanito piuttosto che ad una Europa unita e inserita a buon titolo in un mondo sempre più globalizzato. Auguri, vecchia, perfida Albione.
Neri Paoloni