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Il labirinto del Silenzio


L’immagine può lasciare freddi coloro che non sanno. E’ una rete metallica che racchiude un vasto campo e al di là della quale si vedono i resti di baracche e di un alto camino diroccato. Alla rete si affacciano due visitatori che restano muti. Da quel camino, come nel libro di Vincenzo Papalettera, sono passate migliaia di vite.
Siamo a Oswiecim, in Polonia, 65 chilometri da Cracovia. Ma il nome  terribile che tutti conoscono è Auschwitz. I due visitatori sono due tedeschi: uno è un giovane procuratore di Francoforte, Johann Radmann, l’altro è un giornalista, Thomas Gnielka. Sono giunti in questa landa deserta per cercare di capire, di sapere. E’ il 1958, la Germania di Radmann e di Gnielka è quella del Cancelliere Konrad Adenauer, che sta cercando di riportare il suo Paese, diviso in due, fuori dalle conseguenze della seconda Guerra Mondiale  e dall’abbraccio mortale del nazismo. I suoi concittadini vogliono dimenticare tutto questo. Vogliono soprattutto dimenticare le loro responsabilità.
Ma quando Gnielka si imbatte  in Simon, un artista ebreo che dagli orrori di quel campo è sopravvissuto e che ha riconosciuto in un insegnate di una scuola elementare uno dei suoi aguzzini , e ne parla con il giovane procuratore, questi decide di occuparsi del caso, e far rimuovere dall’insegnamento l’ex aguzzino  nazista. Fare cioè “quello che è giusto”. Ma la Germania in cui vive il giovane Radmann vuole solo dimenticare. Dimenticare  il nazismo e i suoi orrori ma anche di “essere stata” nazista. Adenauer aveva reintegrato i funzionari pubblici coinvolti con il regime e i tedeschi volevano soprattutto “non sapere”. Il procuratore inizia l’inchiesta ma cozza con un muro di silenzio e di negazione.
Solo l’appoggio del procuratore  generale Fritz Bauer, ebreo scampato al nazismo, che gli darà carta bianca  permetterà a Radmann di andare avanti. E di testimonianza in testimonianza di prendere conoscenza dell’orrore e di arrivare a quel processo  che nel 1963 portò in tribunale 211 sopravvissuti e 22 nazisti (sei condannati all’ergastolo), ma soprattutto portò l’intera nazione a confrontarsi col suo recente passato.   “Labirinto del silenzio” è il film che racconta questa vicenda  diretto in Germania da Giulio Ricciarelli, milanese di nascita e tedesco di adozione. L’andamento è quello di un documentario. Ricciarelli affronta fatti realmente accaduti attraverso la ricostruzione precisa delle fasi del processo, dalle indagini alla ricerca dei testimoni sopravvissuti, al tentativo, fallito, di far processare in Germania anche due dei maggiori aguzzini di Auschwitz e degli altri campi di sterminio: Eichmann e il dottor Mengele. Entrambi sono fuggiti in Sud America. Ma se su Eichmann vogliono metterci le mani gli israeliani, ci riusciranno e lo processeranno a Gerusalemme,  Mengele non sarà mai preso e morirà annegato su una spiaggia brasiliana diversi anni dopo.
Tuttavia il giovane Radmann, grazie all’appoggio di Bauer, otterrà il suo processo  e farà in modo che la Germania  si faccia carico del suo stesso passato. E  come promesso a Simon, al quale Mengele aveva torturato e ucciso le figlie gemelle, Radmann e Gnielka reciteranno per quelle bambine il Kaddish, la preghiera dei morti, lungo il perimetro spinato di Auschwitz. Il labirinto del silenzio è rotto. Il film, basato su fatti veramente accaduti e su personaggi reali (Gnielka e Bauer, a cui il regista rende omaggio) è un documentario teso e appassionato, candidato all’Oscar tra i film stranieri. Protagonisti gli attori Alexander Fehling e Andrè Szymanski e uno dei migliori attori tedeschi, Gert Voss nei panni del Procuratore Gnerale. Un docu-film da vedere. Per non dimenticare.

Neri Paoloni