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“Dodici anni schiavo” e “La Grande Bellezza”


Poi riparliamo del film di Paolo Sorrentino, “la Grande Bellezza”. Prima voglio dire le mie impressioni su “Dodici anni Schiavo”, la pellicola che ha ottenuto l’Oscar per il miglior film dell’anno. Sono andato a vederlo subito dopo la premiazione. Non mi è piaciuto. L’ ho apprezzato come opera cinematografica intensa e appassionata, ma non gli avrei dato l’Oscar e nemmeno alla Lupita Nyong’o come migliore attrice non protagonista. C’era di meglio e continuo a ritenere che “Nebraska” fosse più meritevole.  Mi è sorto così il dubbio che il premio al film e anche alla Lupita fossero dovuti in buona parte al senso di colpa degli americani sulla schiavitù. Oggi svegliatisi dal  sonno grazie anche al fatto di avere eletto per due volte alla Casa Bianca un “nero”, gli Oscar suonano come remissione di un peccato. Oltretutto c’è voluto un regista non americano, l’afro-britannico Steve McQueen, a raccontare in maniera così truce e drammatica l’inferno degli schiavi   nel “civilissimo” Sud degli Stati Uniti. Non è forse un caso che quasi contemporaneamente un altro film, “the Butler”, opera di un regista nero americano, Lee Daniels, abbia raccontato con i guanti bianchi la storia dei neri d’America.
“Dodici anni schiavo” è lentissimo, qualche volta noioso, volutamente agghiacciante.  Che la storia sia vera in ogni particolare, compresa la sadica fustigazione della povera Lupita concupita dal cattivo e pervertito padrone (Fassbender) non ha importanza.  Se il film non fosse tratto dall’autobiografia di Solomon Northup, da lui scritta dopo essere tornato libero (lo impersona un alquanto inespressivo Chiwetel Ejiofor), potrebbe venire il dubbio che si tratti di una storia inventata per colpire al cuore in modo ricattatorio la memoria dei buoni americani. Che forse sono rimasti più emozionati di quanto possa esserlo un pubblico europeo che ha conosciuto altrettante e peggiori storie di ferocia e di trattamenti inumani dell’uomo sull’uomo. Vedi ieri l’Olocausto e oggi per l’Italia i CIE.La storia: Solomon è un uomo di colore di Saratoga, Stato di New York. Qui – siamo nel 1841 – la schiavitù è stata abolita.  E’ un uomo libero ed anche un  apprezzato violinista. Attratto da un’offerta di lavoro, viene accompagnato da due figuri a Washington (dove la schiavitù non è ancora illegale), ubriacato, drogato e deportato assieme ad altri poveri cristi nello Stato schiavista della Carolina del Sud, affamato di manodopera per la raccolta del cotone e della canna da zucchero dopo che le fonti di approvvigionamento dall’Africa sono state chiuse. Solomon è ormai uno schiavo come gli altri, gli cambiano il nome, deve dare del “padrone” ad aguzzini e sorveglianti molto più ignoranti di lui (guai far sapere di saper leggere e scrivere) e viene passato da un proprietario terriero all’altro come si fa con un cavallo o una vacca. Del resto cosa sono, questi negri, se non “belle bestie” da mettere in vendita (come afferma il mercante Paul Giamatti) e da trattare come tali? E se si ribellano? Frustate e nei casi estremi impiccagione.  C’è una scena, resa angosciante dall’assoluto silenzio, in cui il povero ex Solomon, ora semplicemente Black, è appeso per punizione ad un albero con la corda al collo e le punte dei piedi che sfiorano il terreno fangoso sottostante quel tanto da mantenerlo vivo, nell’indifferenza assoluta degli altri schiavi e dei bianchi che abitano la casa padronale.
Il finale, con il ritorno alla libertà di Solomon, è la classica ciliegina sulla torta che concilia il pubblico con la truculenta trama del film, ma non è certo questo che fa apprezzare l’intero lavoro.
Torniamo a “la Grande Bellezza”. Ora che ha vinto l’Oscar se ne impadroniscono tutti, ma molti storcono la bocca. Non è quella la Roma vera, dicono. Quella che Sorrentino dipinge è una cartolina stereotipata buona per gli USA ed ecco la ragione del premio. “Roma non è così!”.
Bene, lasciatevelo dire da un romano: è peggio.

Neri Paoloni.