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Antonio De Vito - Il sovversivo col farfallino, destinazione Ponza
Edizioni del Rosone


Ho accettato volentieri l’invito a presentare il libro di Antonio De Vito per due ragioni: perché si apparenta a due testi da me curati tra il 2010 e il 2012 su due personaggi, solo apparentemente minori, della storia dell’antifascismo italiano: Gino Napolitano, calabrese e sanremese di adozione e Paolo Cinanni, calabrese anche lui, protagonista della Resistenza nel cuneese e soprattutto protagonista delle lotte contadine in Calabria del 1943-1946; inoltre perché il libro che Antonio De Vito dedica a suo padre consente di richiamare un argomento importante e non nuovo per lo storico, quello del rapporto tra storia e memoria. E sappiamo bene quanto la cultura storica tra noi italiani sia poco curata e quanto ancor meno sia coltivata la memoria del passato. Una carenza che segna pesantemente la società italiana, per questo debolissima sul piano civile e politico.
Storia e memoria sono due termini che costituiscono un binomio inscindibile e che si influenzano a vicenda, anche se non stanno sullo stesso piano. La memoria si avvale sostanzialmente del ricordo, perciò è una verità soggettiva, che, nel momento in cui si accomuna a quello di altri individui o gruppi, diventa collettiva. La memoria non può essere perciò condivisa a priori, perché richiede comunicazione, sintonia, partecipazione e sentimento di un’esperienza comune. La memoria alla quale attinge la storia mira a salvare il passato per servire al presente e al futuro. Questo può avvenire quando la memoria diventa verità storica attraverso la ricerca e il rigore del metodo storico.
E’ proprio la ricerca secondo il metodo storico che permette di vagliare le testimonianze dando allo storico la possibilità di distruggere le menzogne, le verità strumentali e strumentalizzate. Un procedimento che impone allo storico, per dirla con le parole di un grande storico francese, Pierre Vidal-Naquet, di essere traditore di qualsiasi dogma, ideologia o teologia, che possa in qualsiasi modo condizionarne il lavoro. Egli deve sottoporre a verifica incessante i materiali storici per stanare le imposture, sempre in agguato e sempre possibili da parte di chi pensa di potere e dover piegare a fini di parte l’attività storiografica.
Quando la memoria testimonia una verità, il singolo o il gruppo che l’ha testimoniata diventa uomo (uomini)-memoria e solo in questo caso la memoria raggiunge il punto più alto della sua valenza, perché serve alla libertà e non all’asservimento degli uomini. Giuseppe de Vito è a pieno titolo un testimone della verità, un uomo-memoria, che ci offre, grazie al recupero da parte del figlio di alcuni suoi documenti sul confino a Ponza negli anni del regime fascista, alcune considerazioni generali  sempre attuali.
Il primo è certo il sacrificio che ha comportato la sopportazione degli anni di reclusione in nome di un ideale altissimo, non quello dell’antifascismo in quanto tale, ma della libertà democratica. Noi abbiamo il dovere di indicare a tutti – ai giovani in particolare – queste figure, soprattutto quelle minori, come Giuseppe De Vito. Il loro sacrificio è tanto più degno di lode e di riconoscenza imperitura perché fatto da persone semplici, da uomini senza ruoli di rilievo intellettuale o istituzionale, animati solo da un forte convincimento ideale.
Recuperare il ricordo di queste persone nella loro lotta contro un regime illiberale e violento e nella partecipazione alla Resistenza – qui penso al concittadino  Gino Napolitano – consente, dal mio punto di vista, di rendere davvero efficace  la memoria storica, dal momento che così essa viene sottratta al rito pubblico delle memorie istituzionalizzate e ritualizzate, che comportano il rischio di scadere nella tradizione sclerotizzata, stancamente ripetuta e perciò alla fin fine generica, asettica, incapace di suscitare motivi di riflessione, insegnando qualcosa per il presente e il futuro. Ripristinare il ricordo è un’operazione di valore civile e di rafforzamento della coesione sociale del nostro paese, che si presenta ancora troppo fragile nella tenuta democratica, facilmente incline ad affidarsi a demagoghi, poco disposto a fare tesoro del passato.
Un altro motivo di riflessione è che Giuseppe De Vito appartiene alla schiera di quelli che hanno posto la lotta antifascista in una linea di continuità con l’esperienza in trincea nella Grande Guerra. E’ appena il caso di ricordare che la partecipazione italiana alla I Guerra mondiale fu intesa come ideale prosecuzione e completamento delle lotte risorgimentali, determinandosi così un continuum tra Risorgimento, Grande Guerra, antifascismo-Resistenza, Italia repubblicana. Il filo rosso che lega tutti questi eventi è l’ideale dell’indipendenza nazionale e della libertà delle istituzioni e delle leggi democratiche.
Vicende come quella di Giuseppe De Vito non possono prescindere da considerazioni sul nostro presente politico, nel quale è debolissima la tensione ideale, la visione strategica democratica della politica, mentre è forte l’inclinazione a considerare superflua o inutile la sintassi e persino la grammatica della democrazia, che si pensa, anche dai giovani - ciò che è molto grave e preoccupante – di poter posporre o addirittura obnubilare a favore della demagogia o di finte procedure democratiche.
Questo grave handicap della nostra attuale congiuntura storica è addebitabile non solo a una scarsa visione ideale, quindi politica, determinata dal crollo delle ideologie (ciò che nel contrasto agli schematismi e ai preconcetti è stato ed è senz’altro un fatto positivo), ma anche  una preoccupante superficialità culturale e quindi politica. Mi riferisco a tutta la classe politica nazionale e, per quanto mi riguarda, a una parte della classe politica di sinistra, nelle quali è venuto meno il principio che essere politici e politici di sinistra comporta la fatica di studiare.
Come testimonia l’esperienza di De Vito, il vecchio Partito Comunista Italiano curava con estrema attenzione la formazione culturale dei quadri dirigenti (tutti sappiamo della scuola delle Frattocchie), che era da una parte acquisizione di strumenti per la comprensione della realtà sociale e politica del paese, dall’altra momento di amalgama di esperienze individuali e collettive alla luce di un ideale alto e di coesione e compattezza dei quadri dirigenti.
La reclusione a Ponza fu infatti per Giuseppe De Vito un momento di allargamento dei propri orizzonti culturali e politici, grazie all’impegno nello studio che caratterizzava gli esponenti anche non di primo piano della cultura e del movimento antifascisti, che riteneva come proprio obbligo morale il sapere e la trasmissione del sapere. Come scrive opportunamente il prefatore del volume su De Vito, Michele Galante, la repressione fascista invece di scompaginare l’opposizione, produsse l’effetto opposto di formare una nuova classe dirigente. Questo è stato – con tutte le critiche che ad essi certamente si possono muovere - il grande merito dei vecchi partiti ideologici e che sarebbe bene costituisse motivo di riflessione per i molti, troppi  improvvisatori politici attuali a tutti i livelli della gestione della res publica.
La visione ideale della politica – l’ideologia, per dirla col suo nome vero, senza essere terrorizzati dal termine e senza alcuno scandalo – è la vera porta che apre al futuro, perché implica la capacità di lettura e analisi della società, la capacità di impostare con lucidità domande autenticamente politiche consapevoli dei problemi dei cittadini, la capacità di organizzare senza fumisterie, imbrogli, disonestà le individualità sane della società, la capacità di determinare un ruolo guida e dei leaders, di creare progettualità politica, accentrando l’attenzione sulle strategie e non sulle tattiche, ai nostri giorni ridotte a mero tatticismo anziché rese funzionali a strategie che guardano ai cittadini come comunità.

Saverio Napoilitano