cinema
Cate Blanchett e Judi Dench: due grandi attrici
Sarei veramente imbarazzato se, come membro della giuria per l’Oscar, dovessi decidere a chi assegnare la statuetta come migliore attrice. A Cate Blanchett per il suo personaggio di regina mondana di New Jork, Jasmine, nel film di Woody Allen, o a Judi Dench, per quello di Philomena, l’anziana infermiera irlandese alla ricerca del figlio perduto, nel film omonimo di Stephen Frears? Sono andato a rivedere entrambe le pellicole due volte, cercando di decidermi. E non ci sono riuscito. Certo, le storie delle due donne sono diversissime: Jasmine è una bellissima donna alla quale crolla il mondo intorno. Sicura di sé nel suo ambiente, nella ricca casa di Park Avenue, quando tutto va a rotoli va lentamente alla deriva anche lei. Philomena è una donna apparentemente fragile, che riesce a coinvolgere un giornalista alla ricerca del figlio, sottrattole cinquant’anni prima dalle suore del convento irlandese dov’era stata rinchiusa per avere “ceduto alla lussuria”.
All’inizio ero quasi certo: Judi Dench è la mia favorita. Il personaggio al quale l’attrice inglese da vita è bellissimo. Nel lungo viaggio negli Stati Uniti, sulle tracce del figlio venduto cinquant’anni prima a una coppia di ricchi americani dalle perfide suore, questa donna si rivela fortissima nel tentativo di portare a compimento il suo proposito. Che non è solo ritrovare il figlio perduto, ma sapere se si ricordava di lei, e che ne è stato di lui. Insomma riallacciare i fili di una vita che le era stata sottratta con la forza. Philomena è profondamente cattolica e, malgrado ciò che le è accaduto da giovanissima e l’ingiustizia subita, non ha perso la fede. Anzi trova in essa la forza per seguire il suo accompagnatore, un cinico giornalista inglese, già “spin doctor” di Tony Blair ma silurato per una gaffe, e ora alla ricerca di una lacrimevole storia per un giornale popolare, nell’avventura americana.
Poi mi è sorto il dubbio. Woody Allen ha voluto dare al personaggio di Jasmine un aspetto tragico. Cate Blanchett lo asseconda perfettamente. Così il suo viaggio alla ricerca di se stessa, nel tentativo di ricreare quella vita immaginaria per la quale aveva anche cambiato il proprio nome, Jeanette, in Jasmine e infine il fallimento di questo tentativo ne fa un personaggio femminile gigantesco. Confrontare, per credere, il monologo iniziale con il quale tormenta la sua vicina sull’aereo (in prima classe) che la trasporterà da New York a San Francisco per chiedere ospitalità alla sorellastra Ginger e il monologo finale di una ormai disastrata Jasmine con il quale assillerà una donna seduta su una panchina di un parco fino a costringerla ad andarsene.
Allora? La statuetta alla Blanchett? Poi sono tornato a vedere Philomena. Anche qui è la storia di un viaggio. Quello di una donna alla caparbia ricerca del proprio passato, per ricollegare i fili della sua vita tranquilla come infermiera in un ospedale londinese, come madre di famiglia appagata, con quel figlio perso bambino di cui le resta solo una piccola foto scattata di nascosto da una suora buona. Jasmine vive nel sogno e nel sogno si smarrisce. Philomena vive con i piedi ben saldi a terra e riesce alla fine nel suo intento. La dolce, anziana donna irlandese si nutre di romanzi rosa e ricorda con affetto e piacere quell’unico incontro d’amore che le ha dato il figlio che oggi cerca. Il suo accompagnatore è un intellettuale cattolico non credente, dalla dura scorza di cronista navigato. Ma è Judi Dench, Dame Judi Dench, a fornire al personaggio da romanzo strappalacrime uno spessore tale da fare di questo piccolo film un capolavoro. Dunque la statuetta alla settantanovenne attrice inglese? La meriterebbe, certamente. Allora? Allora sono contento di non essere nella giuria degli Oscar.
Neri Paoloni