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Still Life: lezione da una solitudine


Essere soli in una città di oltre sette milioni di abitanti. Essere soli a Londra può sembrare impossibile in mezzo alla folla che percorre le sue strade come un’immensa marea. Eppure John May è un indubbiamente un uomo solo. E’ un impiegato del comune di Kennington, uno dei trentadue di cui è composta questa grande città, non uno tra i più famosi. Il suo lavoro consiste nel trovare i parenti di chi è morto in solitudine per invitarli a partecipare ai funerali che si svolgono a spese del comune. Nella Londra dove si può vivere per sempre soli, come John May, è altrettanto facile morire soli, senza nessuno che ti compianga. Still Life (Natura Morta) è il film che narra di queste solitudini. Un piccolo film inglese diretto da Umberto Pasolini. Italiano, discendente di Luchino Visconti, trapiantato da anni in Inghilterra, dove ha fatto il banchiere poi passato a produrre film. Il primo fu quel “Full Monty” con la famosa scena degli operai disoccupati ridotti a esibirsi in uno spogliarello.
La vicenda di John May nasce da una figura realmente esistente nel mondo impiegatizio britannico. Il regista ne ha letto qualcosa su un giornale, si è documentato è rimasto colpito da questa storia di tombe solitarie, di persone finite talmente ai margini della società da non avere nessuno che possa accompagnarle nell’ultimo viaggio. E ne ha fatto un film. Soli i defunti, solitario l’impiegato addetto alla ricerca dei congiunti. John May (l’attore Eddie Marsan) è un ometto da quattro soldi. Vive in uno di quegli orribili edifici, le case popolari londinesi con le porte d’ingresso delle abitazioni che si affacciano su un lungo balcone-corridoio, in un piccolo appartamento meticolosamente ordinato. Sul tavolo da pranzo, in cucina, la sua cena: una scatoletta di tonno. In più un album con le foto dei morti, che John sfoglia con devozione. In ufficio è altrettanto ordinato. Penne e carte al loro posto, computer acceso appena seduto, fascicoli delle ricerche fatte tutti in ordine. Si comprende come  le sue giornate siano tutte uguali anche da alcune cerimonie funebri nei vari riti religiosi alle quali presenzia: lui, il celebrante, la bara. E una musica di circostanza che lo stesso John ha scelto tra quelle trovate nell’abitazione del defunto.
E’ un lavoro di routine al quale si dedica con diligenza da ventidue anni. John compie le ricerche degli indizi sui suoi “clienti” in locali anonimi, squallidi ambienti, puzza di stantio, calze e mutande ad asciugare sui termosifoni. All’esterno prati, bellissimi parchi e  gente viva. Fino al giorno in cui John è chiamato dal giovane capo in carriera che gli annuncia il licenziamento. Motivo: spreca troppo lavoro nella ricerca dei parenti dei defunti. I tagli di fondi non lo permettono più. Ora si deve procedere al più presto alla loro cremazione. Si risparmiano tempo e denaro e poi i morti sono morti, no? May accoglie la notizia con rassegnazione. Chiede solo di portare a termine l’ultimo lavoro. Il “soggetto”, guarda caso, viveva nello stesso suo caseggiato, le finestre di fronte alle sue. Non l’aveva mai incontrato e neppure il custode dell’edificio ne sa qualcosa. La ricerca in casa lo porta in un antro di solitudine e di degrado. Billie Stoke, questo il nome del defunto, era certamente un alcolizzato, un uomo ormai alla deriva. Malgrado ciò, John sente fortissima la necessità di dare un epilogo alla storia. La ricerca lo porta a ricostruire la vita dell’uomo. Era stato un paracadutista nella guerra delle Falkland, trova suoi commilitoni, un’ex dalla quale ha avuto, senza saperlo, una figlia, due barboni alcolizzati come lui e infine una figlia, Kelly (Joanne Froggatt, vista in Downton Abbey), che da anni non ha voluto aver notizie del padre dopo uno scontro violento. Sarà l’incontro con Kelly, che alla fine si lascia convincere a partecipare al funerale del padre, a lasciare intravvedere la possibilità, per John, di mettere fine, forse, alla sua solitudine. Non sarà così. Perché è il destino che vince nello struggente finale. Ma ora John May avrà un posto nella storia della cinematografia, incarnato magistralmente da un commovente Eddie Marsan, caratterista visto cento volte,  ora protagonista a pieno titolo.

Neri Paoloni