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Sacro Gra, vite vissute ai margini della città


Dopo il lungo digiuno estivo, ho fatto una vera indigestione di film appena usciti. Alcuni di essi li ho visti per mio particolare piacere. Ed essendo un appassionato sia di fantascienza sia di Formula 1 non potevo trascurare né “Gravity” (splendido in 3D) né Rush. Soprattutto il secondo, con la bellissima competizione tra il giovane Niky Lauda e lo spericolato James Hunt. Ma il film che mi ha veramente colpito è, una volta tanto, quello che ha vinto il Leone d’Oro al Festival di Venezia. Parlo di “Sacro GRA”, il documentario girato da Gianfranco Rosi su quell’anello autostradale lungo settanta chilometri che circonda Roma e unisce tutte le consolari che escono dalla città: il Grande Raccordo Anulare, appunto.
Per un non romano può voler dire poco, ma per un cittadino della Capitale è insieme un incubo e una necessità. Un incubo perché è trafficatissimo in ogni ora del giorno ed anche di notte non scherza. Una necessità, perché se uno vuole andare da Roma Nord a Roma Sud, fa prima a percorrere trenta e più chilometri di Raccordo piuttosto che attraversare la città. Certo a volte ci si trova in mezzo a colonne interminabili di auto e camion su tutte le carreggiate e allora anche il GRA può diventare un incubo. Provate a uscire sull’Appia verso le sei di sera. Bei tempi, quando nei primi anni della sua costruzione – tra il 1952 e il 1955 – si potevano percorrere i primi tratti aperti alla massima velocità delle macchine di allora senza problemi d’ingorghi.
GRA, dunque, anzi G.R.A., Grande Raccordo Anulare. Pochi sanno che era quello il nome del progettista che lo ideò, l’ingegner Giulio Gra, e l’acronimo che ne è derivato è l’omaggio della città al suo costruttore.
Veniamo al film. E’ stato definito un documentario e il fatto che il massimo premio della mostra veneziana non sia andato a una classica pellicola con una storia dentro ha suscitato reazioni non tutte favorevoli. Ma “Sacro GRA” non è “solo” un documentario su un’autostrada. E’un racconto poetico e per questa sola ragione fruibilissimo anche da chi a Roma non ci abita né ci passa mai nella sua vita. E’il racconto delle vite che vengono vissute dentro e ai suoi margini. Sono, quelli raccontati da Gianfranco Rosi, personaggi felliniani. Personaggi veri, come il paramedico Roberto, conducente dell’ambulanza del 118, che raccoglie, compassionevole, feriti e incidentati lungo la strada, e torna a casa stanco per accudire la madre-bambina afflitta d’Alzheimer.
 Come Cesare, forse l’ultimo anguillaro romano, che vive “sotto” il raccordo, sul Tevere, nella sua parte pulita, che pesca anguille e sulle anguille ne sa più di ogni altro Cesare gestisce una trattoria, “l’Anaconda”, su una chiatta ancorata nel fiume. Si mangia bene il cibo è semplice. Si capisce dal dialogo di Cesare con la vecchia madre, che rammenda le reti, o con la nuova compagna ucraina, che lo aiuta a cucinare. E come giudicare il quasi monologo tra il barbuto principe (vero principe) Filippo e la figlia, nel loro monolocale di trentatré metri quadrati che su Raccordo si affaccia. Quando, affettando in finestra una melanzana mezza marcita, il principe (con tanto di erre moscia, ma in un italiano perfetto) osserva che sa un po’ di muffa, ma che quell’odore gli ricorda in qualche modo il profumo muschiato di un Château d’Yquem d’annata. Cosa dire del palmologo Francesco, a caccia del maledetto insetto, il punteruolo rosso, che ausculta mentre sta distruggendo le amate piante, lungo il raccordo, che amorevolmente cerca di curare. E delle felliniane belle di notte che vivono ai margini della città e del raccordo e il loro incontrarsi nella notte attorno ai camion-bar che vendono caffè e panini ai loro clienti camionisti.
Una folla di personaggi che nessuno di noi incontra mai ma che esistono, che sono ai margini di questa città, lontani da San Pietro e dal Colosseo, così come da Montecitorio e dalla Roma della politica. E’ vita anche questa la loro, una vita che Rosi ci conduce per mano a incontrare. Gli americani parlano di “road movie”, di film di strada. Questo è qualcosa di più. La macchina cinematografica questo di più lo racconta in modo pieno.

Neri Paoloni