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"Che strano chiamarsi Federico"


Negli anni cinquanta, in Via Cola di Rienzo, a Roma, c’era un cinema che proiettava film con avanspettacolo. La sala si chiamava “Principe”, e aveva assai poco di principesco. I film erano di terza visione e le compagnie che si esibivano sul palcoscenico erano anch’esse di terz’ordine per un pubblico pagante poche lire e di bocca buona. Molti erano militari che venivano dalle caserme della vicina Viale Giulio Cesare, ma a frequentarlo c’era soprattutto gente del popolo e studenti dei licei della zona, principalmente il Visconti e il Mamiani. Ad attirare questo pubblico erano i manifesti affissi fuori, che promettevano “risate-risate-risate” e – soprattutto – “sedici-gambette-sedici”, ossia ballerine più o meno svestite ma certo audaci per l’epoca. Me ne sono ricordato quando, pochi giorni fa, in un cinema non lontano, in Piazza Cola di Rienzo, ho avuto occasione di assistere alla ricostruzione di un simile scalcinato spettacolo, con tanto di comico da strapazzo, otto incredibili ballerine e, in platea, un giovane Federico Fellini nei panni dello scrittore delle battute recitate dal comico, scarsamente apprezzate dal pubblico.
Il film in cui appare la scena è l’omaggio di Ettore Scola all’amico e maestro (presentato a Venezia alla presenza del Capo dello Stato), dal titolo “Che strano chiamarsi Federico”. L’omaggio del regista di “C’eravamo tanto amati” a Fellini non è un documentario e neppure una raccolta di spezzoni di film o d’interviste sul maestro riminese, quanto una bellissima e appassionante ricostruzione dell’esordio del giovane Federico appena giunto a Roma come vignettista e scrittore di brevi testi per il “Marc’Aurelio”, la rivista satirica nella quale anni dopo i due si conobbero. E’ la parte più interessante del film, cui fa seguito una narrazione fatta di ricordi personali e testimonianze.
Per un giornalista con un passato dietro le spalle quale io sono è commovente vedere la ricostruzione della modesta redazione del settimanale satirico, girata rigorosamente in bianco e nero (siamo nel 1938), e il giovane Fellini che si presenta al direttore con una cartella di disegni umoristici, che viene accettato e fatto sedere al tavolo redazionale, sul quale sono sciorinate le vignette di alcuni dei più famosi disegnatori dell’epoca, da Attalo a Maccari, a Steno a Barbara, giudicate collettivamente con un “questa mi fa ridere”, “questa no”.
Passa la guerra e il Marc’Aurelio torna nelle edicole nell’aprile del 1948, subito dopo la vittoria elettorale della DC sul Blocco del Popolo. E’ l’inizio di un’altra era. Al Marc’Aurelio fa il suo ingresso Ettore Scola, liceale sedicenne ancora con i calzoni alla zuava, come si usava allora. Da quel momento il film muove sulla memoria del sodalizio che nasce tra i due e di mezzo secolo di grande cinema italiano. Perché dal “Marc’Aurelio” escono non solo Fellini e Scola ma anche gli scrittori e sceneggiatori di alcuni dei grandi film dell’epoca. I cammei con Sordi, Tognazzi e Gassman (fantastici i loro provini per il “Casanova”) sono lì a provare come quelle vette cinematografiche italiane difficilmente saranno eguagliate per lunghi anni.
Rimpianto sul filo dei ricordi che la visione di questo film suscita: la Roma di Fellini non è la Roma di “La Grande Bellezza”, ma non era certo una città provinciale. Cinecittà, dove il regista riminese ha girato quasi tutti i suoi film, era considerata l’Hollywood sul Tevere, e “la Dolce Vita”, il suo capolavoro e l’esordio il capolavoro di Marcello Mastroianni, voluto da Fellini perché aveva “una faccia qualsiasi”, caratterizzò un’epoca e fece di via Veneto l’ombelico del mondo.”