cinema


Incongruenza: la Roma di Sorrentino,
bellissima e sfasciata


Ci sono rimasto male quando, avendo letto le critiche favorevoli della stampa straniera sul film di Paolo Sorrentino, “la Grande Bellezza” dopo la sua presentazione al Festival di Cannes, ho appreso che la pellicola non aveva ricevuto un benché minimo premio. Ho pensato al solito complotto straniero ai danni della cinematografia italiana e più in generale dell’Italia, all’incomprensione estera per i temi trattati nelle opere dei nostri registi, eccetera, eccetera. Allora mi sono precipitato a vederlo, appena “la Grande Bellezza” è apparso nelle sale cinematografiche.
Sono rimasto inchiodato in poltrona, ammirato, basito, stordito per le quasi due ore di durata della proiezione. Poi, quando le luci si sono riaccese e in sala è sceso il silenzio, ho stentato ad alzarmi. Mi frullava in testa, già da metà film, un pensiero: “aridatece Fellini”.  Sono tornato a casa, sono andato a rileggermi le recensioni, le analisi, le critiche, le vivisezioni del film del regista napoletano. E mi sono reso conto che effettivamente, “la Grande Bellezza” aveva letteralmente diviso in due i giudizi. C’era chi lo considerava un capolavoro e Sorrentino degno epigono di Fellini, di Scola o di Antonioni, e chi reagiva con assoluta freddezza di fronte alla nuova “dolce vita” di Jep Gambardella, il giornalista mondano interpretato (magistralmente) da Toni Servillo.
Allora ho pensato di non essere il solo a non avere capito niente, a non avere colto il “Messaggio” del film nella sua interezza. Il senso di vuoto morale che Jep rappresenta, vuoto di tutta la Roma che il giornalista frequenta. Delle feste di cui è il protagonista e insieme il detrattore (il “trenino”, il ballo che non porta da nessuna parte), dei personaggi squallidi che intervista per conto del settimanale specializzato per il quale lavora oggi, a sessantacinque anni inutilmente trascorsi dopo avere scritto quarant’anni prima un unico romanzo esaltato dalla critica. E allora ho cercato in me stesso, romano di Roma, giornalista dagli anni della “Dolce Vita”, amico dei fotografi diventati grazie a Fellini “paparazzi”, il senso di quell’inutilità che il “collega” Jep Gambardella rappresenta.
Per scoprire che sì, ci voleva un altro provinciale, com’era Fellini, per raccontare Roma, per dipingere un quadro così spietato dei personaggi che la abitano.  Così i frequentatori degli inutili salotti della”gente che conta” mi sono apparsi simili ad altri personaggi, quelli dei Palazzi "che contano", i Palazzi della politica italiana. Dove la loro incongruenza-inconsistenza è esplosa in questi ultimi anni per finire nel grottesco della mancata elezione del nuovo Presidente della Repubblica che li ha costretti ad andare col cappello in mano dall’ottuagenario Capo dello Stato uscente per chiedergli di rimanere ancora. Perché loro, tranne che nelle comparsate alle feste (i talk-show televisivi), non sapevano più uscire dagli stanchi ruoli di sempre.  E allora grazie Sorrentino.
Il film non sarà un capolavoro, ma racconta il disincanto per questa Roma eterna, bellissima quando è solitaria e illuminata dalla luna. Bellissima nei suoi monumenti immortali e così sfasciata nei comportamenti dei suoi abitanti, del nuovo “generone” politico-mondano che la pervade, nel cinismo e nel menefreghismo totale. Il film è dunque una sorta di sermone funebre dello splendore di questa città. E se Servillo-Jap è l’insopportabile narratore napoletano della sua decadenza e Carlo Verdone è il patetico scrittore fallito che ne fugge deluso, la figura più patetica è quella di Ramona-Sabrina Ferilli, splendida spogliarellista quarantenne che i guadagni li spende per curarsi, fino alla morte. Che s’intuisce appena. Bellissima e morente. E’ questa la “Grande bellezza” di Roma? Se volevi raccontare questo, mannaggia a te, Sorrentino ci sei riuscito.

Neri Paoloni