cinema


"Il Figlio dell’altra" di Lorraine Lévy
La difficile convivenza tra israeliani e palestinesi


Non credo che Barack Obama, in vista del suo viaggio in Israele, abbia avuto l’occasione di vedere un film che costringe a  riflettere sulle enormi difficoltà di giungere a soluzioni di convivenza e di pace tra israeliani e palestinesi.  Il film, in questi giorni in programmazione nelle sale  italiane, è  intitolato “Il figlio dell’altra”. Opera della regista francese Lorraine Lévy, presentato lo scorso dicembre al festival di Torino, il film parte da uno spunto di cronaca. Joseph, un  ragazzo diciannovenne, durante la visita per il servizio di leva nell’esercito israeliano scopre di non essere il figlio biologico dei suoi genitori.
E’ stato scambiato alla nascita con Yacine, “figlio” di una coppia araba palestinese della Cisgiordania. Lo scambio è avvenuto nell’ospedale di Haifa, nel 1991, durante un attacco missilistico di Scud iraniani, nei giorni della Prima guerra del Golfo. I “genitori” di Joseph sono un colonnello dell’esercito israeliano e una dottoressa, buona classe sociale di Tel Aviv. Il ragazzo vive spensierato con i suoi compagni di scuola, ma dovrà trascorrere la lunga ferma nell’esercito prima di poter realizzare il suo sogno: scrivere canzoni e dedicarsi alla musica.
Ma il suo gruppo sanguigno non è compatibile con quello di coloro che per diciotto anni ha ritenuto i suoi genitori. Le ricerche portano la madre a scoprire cos’è accaduto e chi è il suo figlio naturale. E’ Yacine, un ragazzo palestinese i cui genitori vivono in un villaggio della Cisgiordania. Il padre è un ingegnere, costretto dalla politica isolazionistica di Israele a fare il meccanico. Yacine si è appena diplomato a Parigi, dove vive una zia, e si prepara a proseguire gli studi. Vuole fare il medico e aprire un ospedale nel quartiere in cui abitano i suoi.
Nella storia narrata da Lorraine Lévy tutto alla fine si aggiusta per opera delle due madri e dei due ragazzi, quando si incontrano e si interrogano sul loro futuro, in un paese diviso, dalla stratificazione apparentemente insuperabile di rancori accumulatisi nel tempo tra israeliani e palestinesi.
Non è solo la divisione fisica e politica tra Israele e Cisgiordania, che nel film è messa in evidenza dalla esistenza dell’alto muro costruito da Israele per “tener fuori” gli arabi e al duro regime di separazione per il timore incombente di attentati ad opera delle componenti più oltranziste dei palestinesi E’ più il “non detto” direttamente ciò che il film  mette in evidenza, che rende plasticamente la divisione incolmabile esistente tra i due popoli. Basterebbe l’episodio del colloquio di Joseph con il rabbino, una volta venuto a conoscenza che sua madre non è la madre biologica. Il ragazzo gli pone una domanda fondamentale: “Sono ebreo?”. La risposta è no. E’ ebreo solo chi è nato da madre ebrea. Non ha nessuna importanza l’essere cresciuto nella cultura e nella religione ebraica. Per “diventare” ebreo dovrebbe “convertirsi”, spiega il rabbino, e non è una cosa semplice. Dall’altra parte del muro, quando Yacine torna da Parigi, è il fratello maggiore a vedere improvvisamente in lui il nemico, l’occupante, colui che appartiene per nascita a un popolo che ha usurpato le terre dei palestinesi. E’  la reciproca curiosità dei due ragazzi, il desiderio di conoscere l’altro e l’altra madre, a spingerli a incontrarsi, alla ricerca di una normalità che in realtà allo stato attuale non può esistere.
E’ commovente vedere come Yacine, che pure viene da Parigi, scopra come si vive bene dall’altra parte, nella Tel Aviv israeliana, e come Joseph, che viene da quella realtà, riesca ad inserirsi e a farsi persino accettare dal padre biologico grazie alla musica, ad una canzone araba che il giovane canta, quando viene invitato a pranzo dalla “sua” famiglia.
Purtroppo i buoni sentimenti non bastano. La soluzione ottimistica  con cui la regista porta a conclusione il film, quando i due protagonisti, ormai amici anche se consapevoli del loro destino, si interrogano sul loro futuro  invitandosi “a non sprecare la vita” non sembra tenere conto delle cause storico politiche che fanno della questione israelo-palestinese uno dei problemi politici di più difficile soluzione.

Neri Paoloni