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Lincoln, lo statista che pensava al futuro


Un grande Paese è grande perché riesce a rileggere la propria storia anche nei suoi passaggi più dolorosi. Riesce a fare di quelle che erano questioni fondamentali d’ideologia, d’interessi, di divisioni dolorose, un amalgama necessario a costruire una Nazione. Altri Paesi non riescono a raggiungere uno scopo comune e le fazioni impediscono alla fine la nascita di un vero sentimento nazionale.  Lincoln, il film di Steven Spilberg racconta come la nascita di una Nazione sia spesso legata alla storia di un uomo, alla sua volontà, non tanto di imporsi politicamente, quanto di perseguire un fine, un ideale che ha come scopo finale e unico quello di fare emergere nel Paese la consapevolezza di essere a una svolta fondamentale della propria Storia.
Il film si concentra su pochi mesi cruciali nella vita degli Stati Uniti. Siamo nel 1865, in piena Guerra di Secessione, la Guerra Civile tra gli stati del Nord, l’Unione, e la Confederazione degli Stati del Sud. Abramo Lincoln è stato rieletto presidente ed è all’inizio del suo secondo mandato. Le due fazioni si combattono ormai da quattro anni, ma la guerra sta per finire. Gli Stati del Sud sono allo stremo e le grandi vittorie del generale Lee sono ormai un ricordo. Ma le battaglie continuano, sempre più sanguinose. Alla fine le perdite supereranno i 600.000 morti. La pace potrebbe essere siglata da un momento all’altro.
Una delegazione sudista ad altissimo livello, guidata dal vice di Jefferson Davis, il presidente dei confederati, chiede di essere ricevuta da Lincoln a Washington. Ma Lincoln prende tempo. Vuole che la Camera dei Rappresentanti approvi, prima della fine delle ostilità, il XIII° Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti.  Quello che abolisce e proibisce definitivamente la schiavitù. Il testo era stato già approvato dal Senato e il passaggio definitivo alla Camera dei Rappresentanti non avrebbe dovuto destare problemi. Ma si era alla fine di una guerra che aveva visto gli Stati del Sud staccarsi da quelli del nord proprio a causa del Proclama di Emancipazione, emanato dallo stesso Lincoln. Ora Lincoln temeva che quel documento fosse visto solo come una misura temporanea dovuta alla guerra.  Approvare anche alla Camera dei Rappresentanti il XIII Emendamento prima della ormai certa fine delle ostilità avrebbe messo un punto fermo sulla politica dell’abolizione della schiavitù.
Alla Camera dei Rappresentanti il numero dei favorevoli tra i repubblicani appartenenti allo stesso partito del presidente non era sufficiente a far approvare l’emendamento, così come non lo era certo tra i democratici sconfitti.  Se inoltre si fosse venuti a sapere che la pace era a un  passo, che il Sud era pronto alla cessazione dei combattimenti, per molti l’approvazione dell’emendamento sarebbe apparsa inutile. A che scopo proclamare formalmente l’abolizione della schiavitù se la guerra con gli stati schiavisti era vinta? Tanto più che neppure tra gli abolizionisti si riteneva che i negri fossero uguali ai bianchi e quindi degni di godere degli stessi diritti, compreso il diritto al voto. Significativa la frase che Spilberg fa pronunciare a uno dei membri del congresso in pieno dibattito: “Se libereremo gli schiavi, poi i negri pretenderanno il voto e arriveranno a chiederlo anche le donne”.
Lincoln, lo statista che pensava al futuro, sapeva che se l’occasione fosse stata persa, se il XIII emendamento non fosse stato approvato prima della fine della guerra, non se ne sarebbe più parlato e forse per sempre.  Servono venti voti per raggiungere la sicurezza. Occorre cercarli anche nel campo avversario. Con ogni mezzo. Dice Lincoln ai suoi: “Non ho detto di comprarli, ma io sono il presidente, voglio quei voti”. Non so se Lincoln abbia letto Machiavelli, ma sicuramente è questo il caso in cui il fine, un grande fine, l’abolizione della schiavitù non solo negli Stati Uniti, giustificava ogni mezzo. E alla fine per pochi voti il XIII emendamento sarà approvato. “Noi siamo balenieri”, dice Lincoln ricordando Moby Dick e una missione che non si può abbandonare a nessun costo. Vincerà, ma verrà ucciso da lì a poco.
Questo è il film. Epico. Con attori da Oscar (dodici le nomination) e primo fra tutti Daniel Day-Levis, un Lincoln all’ennesima potenza. Con una colonna sonora splendida e la Chicago Philarmonic Orchestra diretta da Riccardo Muti. Da vedere senz’altro. Ma, per favore, non fate paragoni con le nostre meschinità. Non ne vale la pena.

Neri Paoloni