cinema
La migliore offerta
Quando scelgo un film (o un libro) lo faccio secondo criteri certamente personali, ma che per me – medio comun spettatore – hanno un’estrema importanza. Innanzi tutto la trama, il “racconto”. L’argomento trattato deve destare la mia curiosità, il mio interesse. Poi viene l’autore o, nel caso del film, il regista. Nel caso di un libro i personaggi, in una pellicola gli attori. Se già li conosco, mi piace incontrarli di nuovo, quasi si tratti di qualcuno di famiglia. A volte mi fido del giudizio di un amico, che parlandomi di quel libro, di quella pellicola, stimola la mia curiosità.
E’ quanto mi è capitato per “La migliore offerta”, l’ultimo film di Giuseppe Tornatore. Anzitutto la trama, avvincente fin dalle prime immagini. Che introducono il personaggio di Virgil Oldman, antiquario e battitore d’aste, ricco, ipocondriaco e solitario. In casa ha un armadio con ben allineati decine e decine di guanti raffinati, che sceglie e indossa secondo le occasioni. Non per ripararsi le mani dal freddo, quanto per isolarsi dal resto del mondo, per toccare senza toccare e soprattutto per non farsi toccare. Nel ristorante di altissimo livello in cui si reca a cena, è accolto come una personalità di prima grandezza. A tavola è completamente solo, isolato al centro della sala affollata. Quando il maitre a fine pasto osa ricordare che è il suo genetliaco e offrirgli un dolce, Oldman con alterigia ricorda ai presenti che la data esatta del compleanno cade il giorno dopo, afferma di essere superstizioso e, non essendo ancora mezzanotte, rifiuta l’omaggio.Al personaggio di Virgil Oldman da forma un attore del calibro di Geoffrey Rush, che abbiamo già apprezzato nelle vesti del logopedista che insegna a non balbettare al futuro re Giorgio d’Inghilterra in “Il discorso del Re”. Il gioco è fatto. L’attore australiano presta il suo volto appassito a questo snob ipocondriaco di mezz’età, ricco quanto basta per sentirsi superiore a tutto e a qualsiasi convenienza. C’è un altro attore, nel film, che sentiamo di famiglia. Si tratta di Donald Sutherland, Billy, che al battitore d’importanti aste fa da spalla e complice in acquisti truccati. Lo abbiamo incontrato nel lontano 1967 in “Quella sporca dozzina”, lo strano film di guerra di Robert Aldrich, e poi ancora in decine di pellicole, fino all’apocalittico, fantascientifico “Hunger Games”.del 2012.
Intanto, lentamente, Tornatore ci introduce in quello che appare all’inizio solo un affare per Oldman: la richiesta dell’ereditiera Claire Ibbetson (Sylvia Hoeks) di valutare l’ingente patrimonio accumulato dai genitori nelle stanze della sua immensa villa, senza tuttavia svelarsi e rivelarsi, affetta come appare da una forma parossistica di agorafobia. Ebbene, il “non” incontro di questi due personaggi, lei la giovanissima ereditiera che si cela dietro un pannello dipinto, lui il misantropo/misogino, che ama le donne solo nei preziosissimi ritratti raccolti nella stanza blindata della sua casa, complice anche la ricostruzione pezzo dopo pezzo di un prezioso automa settecentesco i cui ingranaggi sono trovati – o lasciati trovare – nelle stanze della tetra villa, il progressivo tentare da parte dell’antiquario di svelare la sua cliente e quindi di conquistarla, la ricostruzione dell’automa da parte del quarto personaggio del film, un giovane meccanico impersonato da Jim Sturgess che a Oldman da lezioni d’amore, il lento ma avvincente, svilupparsi del racconto fino alla sua inimmaginabile conclusione, il complotto di cui il vecchio uomo rimane vittima, fa di questo film di Tornatore un appassionante thriller. Dove è giusto ricordare, come fa Billy a Virgil, che “vivere con una donna è come partecipare a un’asta. Non sai mai se la tua è l’offerta migliore” E dove, come sostiene lo stesso Oldman durante una perizia, “in ogni falso si nasconde sempre qualcosa d’autentico”.
E’ il gioco che Giuseppe Tornatore fa con noi ammirati spettatori.
Neri Paoloni