02/02/2015

La relazione del presidente Guido Bossa al VI Congresso dell’Ungp:
"Luci ed ombre di un bilancio; l’impegno comune per proseguire
lungo un percorso condiviso"

Nel gennaio del 2011, quando si svolgeva il quinto Congresso della nostra Unione, l’Italia conosceva il suo quarto anno di crisi economica – il ciclo negativo era iniziato negli Stati Uniti nel 2007 – ma i più ottimisti vedevano già la luce in fondo al tunnel. Oggi, quattro anni dopo, dobbiamo dire che purtroppo quell’ottimismo era infondato; anzi, la crisi si è estesa ad altri paesi europei nostri partner commerciali che non la conoscevano ancora, ha investito quasi l’intera Europa comunitaria e qui da noi si è ulteriormente aggravata: come ha certificato davanti al Parlamento Europeo il ministro Padoan, l’Italia è in recessione da tre anni; il nostro sistema economico è tornato ai livelli dell’anno 2000. L’eventuale ripresa dello 0,5% prevista per il 2015, è un’inezia di fronte all’arretramento del potere di acquisto dei redditi che è tornato al livello di un decennio fa


Una crisi così prolungata ha inciso non soltanto sui fattori economici, ma anche sulle attese, sul carattere, si direbbe sull’antropologia degli italiani. L’ultimo rapporto Censis – dicembre 2014 – descrive una società “sciapa e infelice”, che si è adagiata nella sopravvivenza e ha bisogno di “tornare a respirare”. Ora, si potrà ironizzare su certe espressioni immaginifiche care al Censis e al suo presidente,  ma la voglia di sorridere passa subito, quando si legge nel rapporto che le diseguaglianze sociali sono in aumento, che si è rotto il “grande lago della cetomedizzazione”  che per decenni aveva cementato la coesione sociale del paese, e che troppa gente, troppe famiglie non crescono ma declinano nella scala sociale.
La crisi del ceto medio, in particolare, comporta un brusco arresto  dell’evoluzione sociale del paese ed è destinata a produrre  conseguenze preoccupanti anche sui livelli del nostro welfare e sulla sua distribuzione. Se nei primi decenni del secondo dopoguerra il rapido passaggio di folti ceti sociali da una condizione di povertà o addirittura di sottosviluppo ad una situazione di relativo benessere, favorita da massicci interventi dello Stato nell’economia, aveva innescato il “miracolo” economico e consentito all’Italia di raggiungere un posto di rilievo fra le prime economie capitalistiche, negli ultimi anni il declino è stato rapidissimo: negli anni della crisi, il 10% di quello che fu il ceto medio italiano, colonna vertebrale dello sviluppo, è scivolato verso la povertà; in pochi anni i redditi reali degli italiani sono scesi di oltre il 6%.
Anche l’andamento demografico contribuisce a erodere la capacità economica del ceto medio. Si registra un’ulteriore inversione di tendenza rispetto agli anni dello sviluppo economico. L’Italia è un paese che invecchia sempre di più. Nel 1951 gli over 65 erano l’8% della popolazione, oggi sono – siamo – il 20% (dodici milioni e mezzo), a metà del secolo saranno il 34%; e l’andamento delle nascite non fa ben sperare: nel 2014 oltre 70 mila nuovi nati in meno del 2008, solo parzialmente compensati dagli immigrati. Lo scompenso, nella qualità e nelle prestazioni dello Stato sociale, è evidente: altri paesi europei simili al nostro, come Francia e Germania, stanno attuando politiche demografiche miranti a ristabilire un equilibrio generazionale soddisfacente nel medio periodo. In Italia, nulla di tutto ciò. Anzi, la nostra spesa sociale, che in buona parte è destinata al welfare, è inferiore di circa il 20% rispetto alla media europea; i redditi da pensione sono tassati al pari dei redditi da lavoro, ma non godono degli incrementi contrattuali; le detrazioni sono addirittura più basse di quelle applicate al lavoro dipendente. Un calcolo della Confesercenti sulle pensioni pari a tre volte il minimo Inps cifra a 39 euro annui il prelievo effettuato dal fisco tedesco, e a 4000 euro quello cui è assoggettato il pensionato italiano. I prelievi fiscali sulle nostre pensioni li conosciamo bene. Solo pochi mesi fa il Consiglio d’Europa ha affermato che la legislazione vigente in Italia non garantisce alle persone anziane lo stesso livello di vita del resto della popolazione. Intanto si registrano i primi effetti della riforma Fornero: le nuove pensioni liquidate dall’Inps risultavano, ad un anno dall’entrata in vigore della riforma, nella media, ridotte del 43%.
L’insoddisfazione per il declino individuale e sociale, per le aspettative frustrate, per l’incertezza del futuro, si traduce ormai anche sul piano politico, in fenomeni di erraticità o, più recentemente, di astensionismo elettorale.

La crisi colpisce anche noi

La crisi del ceto medio, di cui parlano il rapporto Censis e altre ricerche socioeconomiche, riguarda da vicino anche noi giornalisti, che di questo segmento sociale facciamo parte, ritenendo anzi di collocarci nella sua fascia più alta, addirittura con un ruolo di leadership intellettuale nei confronti di chi ci legge (o ci leggeva).
Il quadro generale è deprimente, e anche se noi giornalisti soffriamo di meno, tuttavia condividiamo con tutti i nostri coetanei il danno di una progressiva riduzione dei parametri economici e sociali della classe media. Crescono anche fra di noi l’insicurezza economica, l’incertezza del futuro, la paura di non farcela. Qualche mese fa un rapporto dell’Osservatorio europeo sulla sicurezza pubblicato dall’Istituto Demos (Ilvo Diamanti) indicava un 49% di italiani che temono di perdere il lavoro (dunque la principale preoccupazione); ma subito dopo, al 44%, venivano coloro che temono di perdere la pensione. E’ una preoccupazione, questa, che mi è stata rappresentata in occasione di un recente Consiglio nazionale da alcuni colleghi. A suo tempo l’avevo giudicata infondata, ma mi devo ricredere. Certamente è condivisa da molti di noi.
L’andamento economico negativo di questi anni si è rispecchiato nel settore editoriale con un preoccupante effetto moltiplicatore. Preparando questa relazione, ho avuto l’impressione di un perfetto parallelismo fra crisi economica generale e crisi dell’editoria (vendite, ascolti, pubblicità). Poi però ho dovuto constatare che non è così. E’ peggio. La crisi morde di più ed è più profonda nell’editoria che in altri settori produttivi. E si capisce anche il perché: se la crisi riduce i consumi, i primi consumi a cadere sono quelli superflui o considerati tali, e dunque fra questi la lettura. Il che vuol dire, tra l’altro, che quel tipo di consumi sarà fra gli ultimi a riprendersi quando la crisi sarà (ma quando?) alle nostre spalle. Ancora dal rapporto Censis che ho citato, ricaviamo un dato impressionante: in Italia il reddito medio pro-capite è tornato ai livelli del 1993, e negli ultimi dieci anni la ricchezza finanziaria delle famiglie si è quasi dimezzata; ma le copie di quotidiano vendute sono passata da poco meno di 7 milioni giornaliere nel 1990 a meno di quattro milioni di oggi: quasi la metà, e con un trend in accelerazione, se pensiamo che il rapporto Fieg sulla stampa in Italia 2010-2012 presentato dall’allora presidente Giulio Anselmi denunciava in cinque anni la perdita di un milione di copie. E i dati più recenti sono ancor più allarmanti. L’analisi del bilancio di assestamento dell’Inpgi per il 2014 conferma un trend negativo che dura da cinque anni e non fa sperare nulla di buono per l’immediato futuro. Nel solo 2013 si è perso oltre il 6% dell’occupazione giornalistica, e tra il 2009 e il 2013 ben 1662 giornalisti dipendenti hanno perso il posto di lavoro (ancora dati Censis, ma per la Fnsi il buco è più grave: duemila posti in meno negli ultimi anni, di cui la metà nel solo 2013, e ben tremila in cinque anni per l’Inpgi, che ha i dati più sicuri).

Il lavoro che non c’è

Nei soli primi sei mesi del 2014, dunque prima che si avvertissero i benefici attesi dal nuovo contratto, sono stati perduti 634 posti di lavoro. I prepensionati sono stati oltre 600, e col rinnovo del contratto di lavoro il loro numero è destinato a crescere, visto che quasi tutte le maggiori testate hanno aperto stati di crisi o hanno annunciato l’intenzione di farlo. Siddi, illustrando i termini del rinnovato contratto nazionale di lavoro, e forse per convincere i nostro colleghi “attivi” ad inghiottire una pillola amara, ha parlato di un dimezzamento dei ricavi nominali delle aziende editoriali tra vendite e pubblicità, in dieci anni.
Il rapporto su “La professione giornalistica in Italia” realizzato periodicamente dal collega Pino Rea per Lsdi denuncia un progressivo restringimento del campo del lavoro dipendente a favore del lavoro autonomo o parasubordinato, ma contemporaneamente un allargamento della forbice retributiva, con evidenti ricadute negative sui conti dell’istituto di previdenza. Diminuisce la media retributiva annua dei dipendenti (oltre mille euro in meno in 12 mesi); diminuisce, ma  di meno quella degli autonomi; ma a preoccupare per il futuro è soprattutto il calo delle retribuzioni medie dei nuovi occupati con contratto di lavoro subordinato, che hanno perso oltre 5000 euro in cinque anni. Non c’è da stupirsi se il presidente Camporese ha parlato di “morte del presidio di una professione”.

Un equilibrio previdenziale a rischio

C’è il rischio, non solo per noi giornalisti, ma anche per noi, che un sistema previdenziale a ripartizione, concepito e realizzato con intenti solidaristici in una fase economica e demografica di sviluppo, non regga di fronte alla prolungata crisi economica e a un declino demografico che sembra parimenti se non più inarrestabile. Per quanto tempo ancora i giovani italiani saranno disposti a pagare con i loro contributi pensioni che essi non vedranno mai? Il rischio di un conflitto generazionale – versione moderna e ben più drammatica del classico conflitto di classe – appare sempre più vicino; aggravato, nel nostro caso, dal fatto che il nostro istituto previdenziale può contare solo su risorse proprie.       

A rischio la tenuta delle parti sociali

La prolungata crisi economica e l’assenza di prospettive di crescita del Paese hanno avuto conseguenze negative sulla tenuta delle parti sociali e hanno anche prodotto un indebolimento del sindacato, che è evidente sia nella capacità di rappresentanza che nella incidenza sulle politiche sociali. Non era un esito scontato, ma è ciò che è avvenuto, e ne prendiamo atto, al di là del successo delle recenti manifestazioni sindacali contro il jobs act e più in generale contro la politica economica del governo Renzi.
Come sappiamo, la Federazione Nazionale della Stampa ha un patto di alleanza  con le Confederazioni e in generale si riconosce nel sindacalismo confederale e ne apprezza le politiche e i contenuti, Riteniamo, ed io in particolare ritengo che vada riconosciuto il contributo che storicamente il sindacalismo confederale ha dato allo sviluppo civile nel nostro paese, alla tenuta sociale, alla coesione nazionale, riconoscimento che non contrasta, credo, con l’ambizione della politica di riconquistare un legittimo primato nella rappresentanza popolare, senza più riconoscere deleghe a chicchessia. Del resto, in questo come in altri ambiti della dialettica sociale, non ci sono ormai posizioni acquisite una volta per tutte. Ma, detto questo, non credo che il sindacato possa giocare solo di rimessa, contrastando le politiche del governo e rinviando sempre più lontano – dalla fabbrica al parlamento, dal governo all’Europa – il terreno del confronto. E magari rinviando la soluzione di un problema, come quello della rappresentanza, delle sue regole e delle sue forme, che deve essere invece affrontato con metodo e proposte coraggiose, innovative e trasparenti proprio per dare più forza e credibilità alle rivendicazioni sindacali.

La Fnsi e l’appuntamento del contratto

Parallelamente alla crisi del sindacalismo confederale si è sviluppata, in questi anni, anche la crisi del nostro sindacato. Il fatto di essere sindacato unitario e di riconoscere piena cittadinanza, al nostro interno, a tutte le componenti culturali e a tutte le appartenenze politiche, ha costituito per anni una ricchezza della nostra categoria, un valore aggiunto che ci ha dato forza, autorevolezza, credibilità. Ma erano gli anni della crescita del settore editoriale, crescita in termini economici, crescita di occupazione, crescita anche nell’innovazione. Dobbiamo chiederci, e se lo devono chiedere anche i colleghi “attivi” che nei prossimi giorni si riuniranno a congresso qui vicino, perché oggi, in un periodo di crisi e di ripiegamento, quello che ieri era un valore aggiunto sembra diventata una palla al piede. Tentiamo di dare anche noi un contributo a questo dibattito.
Forse non abbiamo preso atto per tempo della crisi e delle trasformazioni che la crisi ci imponeva. E’ così accaduto che la presa di coscienza della crisi ha coinciso drammaticamente con la trattativa per il rinnovo contrattuale, che ha impegnato la nostra Federazione per oltre un anno, concludendosi solo alle soglie della scorsa estate. Per la prima volta, in occasione del rinnovo contrattuale, si è registrata la fuga dal sindacato non solo di singoli colleghi delusi, ma di un’intera componente o meglio di una parte di essa, e in parallelo le tradizionali componenti storiche si stanno sgretolando, destrutturando. Per il nostro sindacato quasi un cambio epocale.
Ora, come sapete, il contratto non solo è stato firmato e ha superato il vaglio del referendum (vi risparmio le polemiche connesse alla consultazione), ma è praticamente giunto ad oltre metà del suo percorso triennale, visto che va in scadenza nel marzo 2016. Il primo interrogativo da porsi è dunque se per quella data saremo in grado, se lo saranno i nostri colleghi che da dopodomani e ancora fra un anno e poco più guideranno la Fnsi, di valutare i benefici del nuovo patto per consolidarli con quello che verrà.

Ungp, Inpgi, Casagit

Dal nostro punto di vista, quel che ci interessava in particolar modo del contratto erano i capitoli riguardanti l’Inpgi e la Casagit, mentre la sorte della ex fissa riguardava i colleghi pensionati già in lista di attesa per il godimento del beneficio e quelli destinati ad usufruirne a breve, anch’essi nostri iscritti o sul punto di diventarlo  se al momento del pensionamento rinnoveranno l‘adesione alla Fnsi.
Ora, per quanto riguarda l’Inpgi, l’aumento dell’aliquota destinata a coprire le maggiori spese per ammortizzatori sociali è senz’altro positivo, così come positivo è il rifinanziamento – collegato all’accordo contrattuale – del fondo per i prepensionamenti e l’incentivo per le nuove assunzioni che secondo il governo comporterebbe almeno mille posti di lavoro il più nel triennio. Cifre da verificare, e il tempo della verifica coinciderà proprio con la scadenza del contratto e l’inizio della trattativa per il rinnovo.
Subito dopo la firma del contratto, il presidente dell’Inpgi ha calcolato in 70-100 milioni nel triennio i benefici per il bilancio dell’Istituto, riservandosi un esame più approfondito dopo un’accurata verifica. Si vedrà allora, e comunque entro l’anno in corso, se la scommessa delle nuove assunzioni sarà stata vinta.
Per quanto riguarda l’ex fissa, come sapete la soluzione trovata si è lasciata alle spalle una marea di polemiche e di contestazioni, anche giudiziarie. Tra l’altro, al momento non risulta che sia operante il prestito accordato dall’Inpgi alla Fieg e che consentirebbe almeno di versare una prima tranche di 10.000 euro agli aventi diritto

Il cumulo: occorrono soluzioni coraggiose

Sulla annosa questione del  cumulo fra redditi da pensione e da lavoro autonomo, credo che il congresso debba confermare il divieto di svolgimento da parte dei pensionati di mansioni proprie dei lavoratori dipendenti; mentre per quanto riguarda le collaborazioni, l’Inpgi compia un gesto di coraggio e di lungimiranza; faccia bene i suoi conti, veda i costi, non stia ad aspettare la sentenza della Cassazione.  Consideri anche che i divieti imposti nel passato non hanno, purtroppo, inciso positivamente sulla nuova occupazione.

La Casagit: uno strumento utile

Casagit. La parabola degli iscritti ricalca quella dell’Inpgi: 5 milioni di Euro di contributi da lavoro contrattualizzato persi in tre anni, 53 mila iscritti (il che vuol dire che la Cassa è sempre utile ai colleghi e alle loro famiglie), un efficace sostegno al reddito  dei professionisti, un progressivo incremento dei costi sostitutivi rispetto alla sanità pubblica, che ha ridotto in questi anni la sua presenza sociale secondo un trend negativo che sembra destinato ad aumentare. Anche in questo caso solo un’accurata gestione patrimoniale ha consentito di chiudere il bilancio tenendo i conti sulla linea di galleggiamento, come dice il presidente Cerrato con espressione efficace; ma gli iscritti contrattualizzati sono in calo, e in aumento i pensionati, che richiedono prestazioni sempre più onerose. Mediamente un pensionato riceve in prestazioni dalla Cassa il 180% di quanto versa, e non c’è da scandalizzarsi, perché ha versato contributi  durante tutta la vita lavorativa.

Ma noi quanti siamo?

Ho già detto che gli iscritti alla Casagit sono oggi 53000, contro 110 mila iscritti all’Ordine dei giornalisti (dei quali meno di 29 mila professionisti e 75 mila pubblicisti). Le posizioni aperte all’Inpgi (gestione principale e gestione separata) sono 55 mila (oltre 15 mila colleghi sono iscritti alle due gestioni); gli iscritti alla Fnsi, in totale, poco meno di 22 mila. In queste cifre, nella loro irriducibilità, c’è tutto il problema della rappresentanza del nostro sindacato, e quindi della sua forza. Diciamo subito che siamo messi meglio dei confederali, la cui capacità di aggregazione non arriva al 10% della forza lavoro, ma non per questo possiamo cullarci sugli allori.
Rileviamo però, con orgoglio, che in questo panorama non esaltante l’Unione Nazionale Giornalisti Pensionati presenta qualche elemento di positività che ci fa guardare con una certa soddisfazione al passato e con qualche  speranza al futuro. Dal 31 luglio 2010, quando fu fatta la rilevazione del numero di iscritti che determinò la platea dei delegati al Congresso di Bergamo (sapete che il nostro Statuto prevede l’elezione di un delegato ogni cinquanta iscritti o frazione di cinquanta), i colleghi aderenti all’Ungp sono aumentati di oltre cento unità, sono oggi 2133 contro i 2017 di allora, e  potrebbero essere un centinaio di più se avessimo potuto ammettere la delegazione della Campania che, per le ragioni che ben conoscete non è qui rappresentata. Tra i giornalisti contrattualizzati la percentuale degli iscritti alla Fnsi è di poco superiore al 50%, tra i pensionati supera il 52%.
Certamente cento iscritti in più non sono un granché, ma sono pur sempre un segno di vitalità, che va apprezzato e valorizzato. Il fatto poi che in questi anni siano stati molto più numerosi i colleghi che, andati in pensione, non abbiano avvertito l’esigenza di iscriversi non tanto alla nostra Unione quanto al sindacato tout court (giacché, ricordiamolo, non ci si iscrive all’Ungp, e neppure alla Fnsi, ma ad una Associazione regionale di stampa e di riflesso alla Fnsi e all’Ungp), deve far riflettere tutti noi sulla nostra capacità di aggregazione e di rappresentanza, che è poi il fondamento della nostra forza e della nostra capacità di incidere sui processi.

Ungp e Fnsi

Dobbiamo interrogarci, nel nostro Congresso, sui rapporti che ci legano alla nostra Federazione. Aspetto, naturalmente, le vostre considerazioni, ma dico subito che io per primo li considero  non pienamente soddisfacenti, a parte naturalmente i rapporti personali. In complesso non direi che siamo considerati come un organismo di base del sindacato meriterebbe. Sarà anche per colpa nostra, nel senso che ci facciamo poco sentire, ed io per primo me ne faccio carico. Voi meglio di me potete dire meglio di me se lo stesso accade nelle regioni, con le Associazioni.
Una nostra  riflessione sul tema, da condensare anche in un documento congressuale, sarebbe importante nel momento in cui fra pochi giorni saranno rinnovati i gruppi dirigenti della Federazione. E’ bene che da subito i nostri colleghi dirigenti del sindacato siano posti di fronte alle nostre proposte e alle nostre richieste, formulate col massimo dell’autorevolezza quale è quella che si esprime nel Congresso nazionale dell’Ungp.

Il Fondo di perequazione: una conquista di cui andare fieri

Fra i risultati della gestione di questi anni il più rilevante è stato senz’altro la realizzazione del Fondo di perequazione per le pensioni più basse. E’ corretto ricordare che è stato impostato dalla presidenza di Ino Iselli con il pieno sostegno del segretario Franco Siddi, e realizzato dall’attuale. C’è dunque un dato di continuità che ormai fa del Fondo un istituto contrattuale consolidato, che può solo migliorare nel tempo. Il Fondo mantiene la sua caratteristica di strumento di integrazione dei redditi più bassi e agisce, nelle fasi di accumulo e di distribuzione, in base a criteri di solidarietà generazionale e di equità. Nello scorso dicembre, grazie anche alla collaborazione della dirigenza e degli uffici dell’Inpgi, che ringraziamo, è stata attuata  la seconda erogazione.

Le nostre pensioni

Non altrettanto positivo è il nostro bilancio sul tema della perequazione delle pensioni. Parlo delle nostre pensioni, che per la grande maggioranza non sono certo definibili d’oro. Ho presente che neppure i sindacati confederali, ben più forti numericamente e politicamente di noi, hanno ottenuto per i loro iscritti qualcosa di più della misera rivalutazione della scorsa finanziaria. Il che ci fa apprezzare ancora di più il nostro fondo perequativo. Però almeno i pensionati confederali, pur insoddisfatti, hanno ottenuto l’appoggio dei dirigenti sindacali delle loro confederazioni e il riconoscimento che la loro rivendicazione per la perequazione era legittima; noi no. A noi è stato detto esplicitamente che la nostra rivendicazione non poteva essere assunta come tale dalla FNSI perché altre erano le priorità del sindacato. Ce lo ha detto cortesemente Rossi, più seccamente Siddi in un Cn in cui mi era stata data la parola per illustrare la nostra posizione.

Che cosa chiediamo alla Fnsi 

Questo è un problema aperto davanti al nostro congresso, e davanti al congresso della Fnsi e che spero la nuova dirigenza federale voglia affrontare con spirito più aperto. Assieme ad esso va considerato il tema della compensazione fra mancata perequazione e trattamento fiscale. Ne ho già accennato. In paesi con i quali amiamo spesso confrontarci – Germania, Francia, Spagna – le pensioni o non vengono tassate affatto o vengono assoggettate a un prelevo inferiore al 10% e questo in considerazione del fatto che si tratta di salario differito sul quale è stato effettuato un prelievo già  al momento della sua formazione. Il nostro statuto – dico quello della Federazione – ci dà uno strumento che dobbiamo valorizzare, quando autorizzando la costituzione dell’Unione Pensionati quale organismo di base della Fnsi (art. 38), considera che il trattamento di quiescenza, “così come generalmente concepito e disciplinato nei sistemi pensionistici, è una proiezione della retribuzione percepita in attività di servizio”. Sulla quale, ribadisco, abbiamo già pagato tasse e contributi.
Su questi temi il nostro Consiglio nazionale ha già rivolto un appello agli organi della Federazione – Giunta e Consiglio nazionale – perché si facciano carico delle nostre rivendicazioni e le rappresentino nelle sedi competenti (Governo e Parlamento). Tale appello, che chiedo al Congresso di rinnovare e meglio argomentare, non va inteso polemicamente né come strumento di  divisione della categoria. Al contrario: noi riteniamo che tutelare oggi le nostre pensioni significhi predisporre meccanismi che tutelino meglio le pensioni di domani, evitando di esporre i giovani di oggi ad un destino di povertà.
Chiediamo un intervento della Federazione, consapevoli del rischio che sul problema del trattamento pensionistico possono entrare in sofferenza l’unità della nostra categoria e la coesione sociale fra i colleghi attivi e i pensionati. Non mancano, purtroppo, segnali di allarme in tal senso, con la minaccia esplicita da parte di alcuni di provocare una “fuga” dal sindacato che indebolirebbe tutti noi, attivi e pensionati.
Con l’entrata a regime del meccanismo di erogazione dell’assegno di perequazione per i redditi più bassi previsto dal Fondo contrattuale, il sindacato ha dato una prova di solidarietà che confidiamo riscuota il meritato apprezzamento. Ora chiediamo di accogliere, nelle forme opportune, le istanze di tutti i giornalisti pensionati su un tema che sta diventando di urgente attualità. E ancora una volta siamo consapevoli che molto dipenderà da noi, dalla nostra presenza nelle associazioni, negli organi. E’ lì che contiamo.
Colleghi! Con il XXVII Congresso federale che si apre dopodomani  si è chiuso un ciclo politico-sindacale, caratterizzato da una maggioranza che ha guidato la Fnsi nell’ultimo quindicennio, sempre ampliandosi (forse anche troppo), che è arrivata al capolinea e che al congresso è chiamata ad un bilancio severo e responsabile.
L’UNGP seguirà il dibattito congressuale, al quale parteciperanno, come delegati o come  membri di diritto anche numerosi colleghi pensionati; ma in quanto tale la nostra Unione non si schiera, e non per timore o ripiegamento, ma perché vorrebbe dare un esempio di unità. Ce n’è bisogno, per far sentire più forte la nostra voce in un mondo che non vuole ascoltarci; ce n’è bisogno per contare di più.
Anche per la nostra Unione, del resto, è tempo di esami e di bilanci, di programmi e di proposte. Credo di avervi illustrato le motivazioni e i criteri che mi hanno guidato in questi anni, nei quali ho cercato di svolgere al meglio delle mie capacità le responsabilità che mi avete affidato, e confermo la mia intenzione di proseguire lungo il cammino intrapreso col vostro consenso, puntando sulla coesione della nostra UNGP, sulla unità della gestione, su un significativo rinnovamento dei nostri quadri, su una rappresentanza territoriale il più possibile allargata, e sollecitando anche, per quanto sta in me, un coinvolgimento delle colleghe pensionate nei nostri gruppi dirigenti regionali e nel nazionale maggiore di quanto risulti dall’attuale congresso.