16/02/2013

Informazione bene comune: allarme di Fnsi e Fieg per la crisi del settore

Franco Siddi“Funzione pubblica essenziale alla vita democratica del Paese” dicono gli editori, “beni pubblici come la libertà di informare ed essere informati e il diritto all’informazione” dicono i giornalisti: e per una volta l’allarme sulle condizioni del settore editoriale nel nostro Paese è generale e condiviso, mentre sta per aprirsi una difficile trattativa contrattuale che per ora è dominata dalla minaccia di una crisi devastante che non risparmia nessuno. L’agonia della carta stampata è sotto gli occhi di tutti: 600 posti di lavoro persi in due mesi, stati di crisi aziendale che si rincorrono e non risparmiano aziende blasonate come Rcs, l’Espresso e Mondadori, mentre i fondi per accompagnare al prepensionamento i colleghi interessati stano per finire


“La crisi, da oggi palese, del gruppo Rcs che prospetta, tra l’altro, 800 posti in meno in Italia (640) e in Spagna, rende evidente per tutti che un settore rilevante dell’industria italiana cui è legato un bene pubblico come quello del diritto all’informazione è arrivato ad un punto di allarme acuto”, ha detto il segretario della Fnsi Franco Siddi nel tentativo di richiamare sul problema l’attenzione del mondo politico e istituzionale distratto da una scadenza elettorale che “pare abbia cancellato dalle tante agende dei competitori politici tanti temi veri delle urgenze del Paese per ricostruire un tessuto democratico ed economico”.
La “Lettera aperta al futuro governo” scritta dalla Fieg non è meno preoccupata. “Noi editori, vi si legge, consideriamo la tutela della libertà di stampa e la diffusione delle notizie una funzione pubblica e insieme un’attività d’impresa che va salvata perché essenziale alla vita democratica del Paese”; ma nel contesto attuale “è urgente un ripensamento complessivo del settore editoriale come base per una politica industriale capace di frenare la flessione produttiva e dio cogliere le occasioni di sviluppo attraverso una decisa modernizzazione”.
Al governo si chiede una presa di coscienza della gravità del problema e una conseguente assunzione di responsabilità; ma la prima risposta è gelida: “E’ illusorio che semplicemente il denaro dei contribuenti possa andare a sostituirsi ai ricavi nel caso in cui questi non vengano dal mercato per i prodotti offerti dall’industria editoriale e dalla stampa”, ha detto Mario Monti, promettendo solo di prendere in considerazione “singole situazioni di crisi”.
Il fatto è, e il presidente del Consiglio non può ignorarlo, che sulla crisi del settore pesa anche l’effetto squilibrante della distribuzione delle entrate pubblicitarie che penalizza fortemente la carta stampata. Di qui la richiesta di un prelievo fiscale sulla pubblicità radiotelevisiva destinato a finanziare l’innovazione tecnologica. “La crisi dell’industria editoriale ha replicato Siddi a Monti, non è una crisi di singole situazioni ma di un intero settore decisivo della democrazia, della vita pubblica e dell’industria italiana. Da chi governa, e si candida a governare, ci si aspetta indicazioni e segnali per politiche di sviluppo, di innovazione e di rilancio dell’occupazione”. E non parliamo dello spreco di risorse pubbliche destinate a in passato a finanziare pseudo imprese editoriali, vere e proprie “coperture” di traffici inconfessabili.
Questo  il contesto preoccupante nel quale i giornalisti italiani si apprestano ad aprire la trattativa con gli editori per il rinnovo del contratto di lavoro. Un appuntamento cui ci avviciniamo avendo provveduto al completamento della nostra squadra negoziale con l’elezione di Giovanni Rossi alla presidenza della Fnsi. L’elezione è avvenuta in Consiglio nazionale e il nuovo presidente, che subentra a Roberto Natale, dimissionario in quanto  candidato alle elezioni politiche, ha manifestato da subito la sua preoccupazione per la situazione che il giornalisti italiani si trovano ad affrontare. “La sfida più grande in questo momento, ha dichiarato all’Ansa, è ottenere la riapertura del mercato del lavoro. Se non c’è lavoro, non si creano sbocchi, non c’è sviluppo. E se non c’è lavoro vero (dipendenti con contratti stabili, che producono contributi) sono a rischio anche gli enti previdenziali”.