02/01/2013

Romano Bartoloni: "C’era una volta l'Ordine dei Giornalisti"

Romano BartoloniNon esiste più l’Ordine che c’era una volta. Con l’anno nuovo, l’OdG nazionale e quelli regionali non potranno più sentenziare sulla correttezza degli oltre centomila giornalisti iscritti agli albi, perdendo così a 50 anni suonati la ragione di vita. Anche se si tenta di resistere alla rivoluzione esistenziale con il pretesto del rinnovo elettorale di maggio, sono in arrivo i consigli di disciplina nel segno della terzietà della vigilanza deontologica, sottratta all’attuale gestione casalinga secondo gli indirizzi stabiliti dal governo nell’ambito della la miniriforma delle professioni


I nostri giudici togati, 150 solo a livello a nazionale, dovranno rinunciare alla loro funzione giurisdizionale e dedicarsi a compiti sussidiari; specie sotto il diktat ministeriale che obbliga l’aggiornamento professionale permanente per tutti, sia per colleghi carichi di gloria, sia per pensionati comunque sulla breccia, sia persino per quelle decine di migliaia di fantasmi col tesserino scomparsi dal giro.
E’ una svolta radicale per una professione che non è stata davvero mai tale e inventata di sana pianta in epoca di politica indulgente per la nostra categoria. Si è mosso un primo passo in direzione tutta da verificare, o verso una riforma attesa invano da decenni in un Paese dalle perduranti resistenze classiste, oppure verso il superamento in sintonia con i modelli europei e con le profonde trasformazioni sociali e tecnologiche dell’informazione.
Peraltro, il confine tra giornalismo e comunicazione si assottiglia ogni giorno di più, e se il primo perde di affidabilità, la seconda, senza filtri e controlli, si insinua pericolosamente nei meandri dell’opinione pubblica.
Paralizzato da un istituzione anacronistica e autoreferenziale, il giornalismo fatica a reagire con risultato agli stravolgimenti del mercato del lavoro (malvisti i tesserati), al moltiplicarsi delle crisi aziendali (58 solo nel 2012), alla dilagante disoccupazione (2985 senza posto di lavoro negli elenchi ufficiali), allo sfruttamento feroce dei senza speranza, ai selvaggi prepensionamenti a 58 anni, alla polverizzazione dei rapporti di lavoro (in maggioranza i precari). Né riesce a sfruttare le opportunità di impiego offerte dall’era digitale per la miopia di editori. In quattro anni, solo nei tre gruppi maggiori, RCS, Espresso e Mondatori, sono stati tagliati 3.300 posti.
Il sindacato, ingolfato dalle vertenze, frustrato dal grido di dolore della categoria, incalzato dagli autonomi a paghe risibili, non sa più a chi dare i resti. Senza una vera liberalizzazione del settore, l’INPGI (consuntivo 2011) rischia la bancarotta a rimorchio del crollo dell’occupazione: i prepensionamenti a raffica spingono alle stelle la spesa previdenziale (392.905 milioni di euro per 7mila pensionati), le indennità di disoccupazione costano 10.629 milioni, la cassa integrazione sborsa 2.842 milioni, la partecipazione ai contributi di solidarietà arriva  a 2.707 milioni, tutte voci in crescita esponenziale. Il pacchetto complessivo delle prestazioni dell’Istituto ha pesato sul bilancio 2011 per oltre 418 milioni di euro contro introiti per 415.692 milioni. E l’andamento del 2012 non è migliore.
Il costo degli ammortizzatori sociali (oltre 16 milioni di euro) contribuisce a sfondare il tetto del rapporto fra entrate (99,7) e uscite (100,3) e a mettere seria ipoteca sul futuro dell’INPGI già minacciato dagli sciacalli della politica che aspirano a scioglierlo nel calderone dell’INPS per rimpolpare le casse pubbliche.
Senza il tabù dell’Ordine, peraltro visto come il fumo negli occhi dai nostri interlocutori pubblici, il sindacato acquisterebbe forza e mano libera per porre fine a un’ingiusta discriminazione sociale e ottenere, come per tutti gli altri lavoratori, che i costi della crisi siano pagati dalla fiscalità generale, o, se mai ci sarà la sospirata riforma, attraverso pilastri assicurativi con il coinvolgimento di tutte le parti sociali.
Mentre ormai solo un giornalista su 5 ha un contratto a tempo indeterminato, e mentre risorse, energie e volontà per risollevare la stampa scarseggiano, e la penuria di pubblicità grava sull’intero mondo dei mass-media, l’Ordine continua imperterrito a gonfiarsi come un pallone a rischio di scoppiare. Conta 112.085 iscritti agli albi che stanno diventando la fabbrica delle illusioni. I giornalisti italiani sono il triplo di quelli francesi (37mila e in calo), e il doppio degli inglesi (meno 10mila) e degli americani USA. Del totale ben 48.206 (dato del 1 ottobre scorso) i cosiddetti “invisibili”, che costituiscono una zavorra di cui si è persa la traccia. Senza l’Ordine e il tesserino, questo esercito di fasulli sarebbe il primo a  scomparire dal giro del giornalismo, restituendo una dimensione accettabile e credibile al mondo dell’informazione. Di contro ai grandi numeri di evanescenti i contrattualizzati FIEG-FNSI, il nerbo economicamente più robusto della categoria, è sceso sotto i 15mila colleghi con allarmanti contraccolpi sulla tenuta dell’INPGI.
Nell’epoca della dittatura delle immagini e della comunicazione digitale sopra e sotto le righe, dove tutto viene portato da tutti nella pubblica piazza (reti sociali, blog e citizen journalist), non sarà certo l’Ordine, anche se dovessero venire i marziani a riformarlo, a tutelare la professionalità o più correttamente la prestazione professionale del giornalista, a promuovere l’accesso senza assalti alla diligenza, a garantire il diritto dei cittadini ad essere compiutamente informati, a salvaguardare la qualità dell’informazione, a combattere contro le leggi liberticide, a salvare la categoria dalle decimazioni, a scongiurare la sconfitta del giornalismo libero e indipendente.
Né ha prospettiva il tentativo degli oltranzisti di aggregarsi al carro delle altre professioni. Un settore, secondo il presidente dell’Antitrust, Giovanni Pitruzzella, è quello che è più è rimasto agganciato a modelli ottocenteschi di erogazione dei servizi. Non a caso si parla di professioni e non di servizi professionali”. Peraltro, la nostra si porta dietro un brutto marchio di fabbrica. Gli albi dei giornalisti furono istituiti in epoca fascista con evidenti scopi di schedatura.

Romano Bartoloni
Presidente Sindacato Cronisti Romani