16/10/2023

Guerra a Gaza: scelte difficili per i giornalisti. Una riflessione di Vittorio Roidi su Professione Reporter


Quando scoppia una guerra il giornalismo diventa un mestiere ancora più difficile. Ogni parola pesa, ogni immagine è problematica. Ha scritto domenica il direttore della Stampa, Andrea Malaguti: “La violenza inghiotte ogni cosa, confonde i pensieri, rende i ragionamenti complicati, alimenta la cattiveria e i fanatismi”. Anche quelli dei giornalisti, che sono uomini e donne come gli altri. 

Ancora si discute dell’eccidio dei bambini, le foto erano vere ma erano stati decapitati, sgozzati? Alcuni giornali avevano esitato a pubblicare. “Noi abbiamo deciso di no –ha scritto Malaguti – non perché sia inutile mostrare la verità, ma perché quei minuscoli corpi non sarebbero stati usati per suscitare pietà, per aiutare la comprensione, per ridefinire la portata di questa tragedia immane, ma per fare propaganda”. Dunque, io giornalista devo prevedere come sarà usata la parola che scrivo, l’immagine che pubblico, come reagiranno il comune lettore e forse anche l’esperto commentatore.

Tecnologia e manipolazione

C’è di più. A distanza di molti giorni dall’eccidio dei bambini nel kibbutz di Kfar Aza cè qualcuno che dubita che il particolare orribile della decapitazione sia autentico. Quelle foto non sono state pubblicate. Perfino il sottosegretario americano Blinken, che ha pianto per lo strazio, si è commosso dopo aver visto di persona o solo dopo aver osservato immagini che potevano essere state manipolate? Ogni esercito, soprattutto quelli comandati dai despoti, dispongono di abili servizi di informazione che modellano le notizie e sanno manipolare le immagini per le proprie finalità, cioè per spingere il pubblico a piegarsi verso la propria parte. Ora c’è l’Intelligenza artificiale, la tecnologia si offre agli imbroglioni, più che ai cercatori di verità.

Sempre più arduo trovarla, la verità, detto che noi non siamo novellieri, ma siamo obbligati a servirla e a farlo con mezzi e termini corretti. Il linguaggio è fondamentale. Come si fa a raccontare quei fatti terribili se non si sa con esattezza cosa chi siano i palestinesi, chi gli sciiti e chi i sunniti, cosa la Jjhad, cosa Gaza. Nei dibattiti ogni tanto si sente dire che in Israele si era interrotto (purtroppo secondo alcuni, per fortuna secondo altri) il dibattito sulla riforma delle giustizia, ma pochi spiegano cosa c’entri con lo scoppio del terrorismo, con l’odio, con la rabbia, con il terrorismo e le crudeltà. 

Notizie incomplete

Quante incertezze, quante notizie incomplete e incomprensibili. Hamas è il braccio armato di Gaza, ha fatto un’operazione militare inconcepibile che è logico abbia scatenato Israele e una vera e propria guerra dagli esiti spaventosi. Vero, ma i carri armati entrati a Gaza si scontreranno con blindati palestinesi? O Hamas non li possiede neppure? La risposta di Netanyahu sarà contro un esercito o contro civili inermi, che infatti ha invitato a fuggire, pur sapendo che non possono.

Difficile raccontare la guerra. Grazie a quei colleghi che lo stanno facendo con notevole coraggio e onestà. Ma occorre studiare di più. Giusto non fare vedere immagini raccapriccianti, dice la vecchia regola, ma forse non è più sufficiente. La notizia di quelle mutilazioni era tale, o era “ipotizzata” e già per questo pubblicarla? Nelle scuole di giornalismo si insegna che si pubblica un fatto vero, accertato, non ipotetico. Quando c’è la guerra, forse la regola non è più valida? E poi: i giornalisti non devono parteggiare. Credo che sia ancora sacrosanto, ma che di fronte alle strumentalizzazioni alle quali stiamo assistendo l’uso delle parole e delle immagini debba essere ancora più accorto e meditato. La mediazione deve essere ineccepibile, mentre spesso nei tg molte frasi sono poco chiare.

Pubblicità e disperazione

Un collega televisivo mi ha detto che la Rai presto fornirà ai propri inviati telefoni cellulari con i quali potranno far vedere cosa accade. Avremo la guerra in diretta? Senza filtri, senza mediazioni? Andrà tutto in onda? La diretta è l’apoteosi del racconto televisivo, di una gara olimpica, di una partita di calcio. Ma la guerra no. Non si possono trasmettere: la violenza, l’odio, la disperazione, la morte, come fatti qualsiasi (magari con una pubblicità fra un bombardamento e l’altro). 

I giornalisti lavorano per trovare e dire la verità, non per trasformarla in spettacolo. Se a questo serve l’Intelligenza artificiale, meglio lasciarla dov’è.

E’ una questione, quella di cui parliamo, che purtroppo riguarda tutti i giornalisti, nessuno escluso, non solo quelli che vanno a Gaza. Sabato sera, al termine della partita di calcio Italia-Malta, un telecronista ha concluso la trasmissione dallo stadio di Bari, dicendo: “Ora lasciamo la linea ad un servizio speciale, in occasione dell’inizio dell’attacco militare che ‘concluderà il conflitto’”. Anche i colleghi che si occupano di sport, insomma, devono sapere cosa sta succedendo in Medio Oriente. Così eviteranno di dire frasi inesatte, sciocche e pericolose.